Gran parte dei “covi” e degli arsenali dell’ISIS (e derivati vari) sono celati tra le sabbie africane o nascosti tra le rovine dell’Iraq e della Siria. Probabilmente, molto probabilmente, altri sono nel Qatar e in Arabia Saudita o in qualche landa desolata del Levante. Ma non tutti. Altri centri operativi sono vicini, molto vicini. Troppo vicini.
I dati sono chiari. Da tempo i fondamentalisti si sono posizionato in Balcania — proprio dall’altra parte dell’Adriatico. Il centro è per lo più in Bosnia- Erzegovina, questa stramba entità post-yugoslava posizionata sulla stessa latitudine di Ancona e Firenze. A qualche centinaio chilometri dal nostro confine orientale. Alla porta di casa nostra.
Da tempo, come conferma “Analisi Difesa”, l’ottima rivista diretta da Gianandrea Gaiani, questo micro stato artificiale creato da Tito, è «al settimo posto al mondo per numero di combattenti dell’Isis in rapporto alla popolazione. Stando a un rapporto statunitense di cui hanno dato notizia i media a Belgrado, sono 330 i cittadini bosniaci che si sono recati a combattere con le formazioni jihadiste dello Stato islamico. In tale classifica che tiene conto del rapporto popolazione/combattenti islamici la Bosnia-Erzegovina è preceduta da Tunisia, Maldive, Giordania, Libano, Kosovo e Libia. In termini assoluti senza tener conto del numero di abitanti, il Paese balcanico occupa la 15a posizione pr numero di combattenti che hanno aderito alle milizie del Califfato. Sono 22 i cittadini bosniaci finora condannati a pene detentive, con sentenze passate in giudicato, per aver combattuto in Siria e in Iraq nelle fila del cosiddetto Stato islamico».
Ecco i dati ufficiali, resi noti dalla Procura bosniaca. Secondo le stime una cinquantina di “foreign fighters” bosniaci «hanno perso la vita e altrettanti sono ritornati in patria».
Al netto dei “martiri”, gli altri, i vivi, cosa fanno, dove sono, chi gli dirige? Domande ancora senza risposta. Qualcuno si muova. In fretta. Sono vicini. Molto vicini. Sono tra noi.
- Roma, 3 lug. (askanews) - Sono oltre 36mila, tra morti e feriti, le vittime del terrorismo in Iraq nel 2014. Il bialncio di sangue, ad un anno dalla nascita dello Stato Islamico (Isis) autoproclamatosi il 29 giugno 2014, lo ha reso noto con un rapporto il ministero dei Diritti dell'Uomo iracheno. Oltre i morti e i feriti, il ministero ha censito anche altri danni provocati dalla furia distruttrice degli uomini del Califfato come la distruzione di ben 201 moschee e della fuga di circa mezzo milione di famiglie dalle province controllate dai Jihadisti: Ninive, al Anbar e Salhuddine.
"Il numero dei morti nel corso dell'anno scorso in tutte le province irachene ad eccezzione di Ninive, Salhuddine e al Anabr (quelle controllate dall'Isis, ndr) e la regione autonoma del Kurdistan è stato di 4722 persone uccise mentre quelle ferite sono state in 28.525", ha detto il ministero iracheno in un comunicato diffuso oggi.
Pesante anche il bilancio delle vittime tra gli uomini dei media. Secondo i dati del ministero, dal 2013 al 2014 sono stati uccisi 406 giornalisti, "14 dei quali trucidati nel 2014". Tributo di sangue anche tra i magistrati che nel corso dell'anno appena passato hanno perso "sei giudici uccisi dai terroristi".
Nel rapporto del ministro viene censito anche il numero dei luoghi di culto musulmani distrutti dagli islamisti del Califfato; secondo i dati della Sovraintendenza sunnita dalla nascita dell'Isis a giugno ad oggi nelle zone controllate dagli uomini del Califfo Abu bakr al Baghdadi "sono stati colpiti 201 moschee". Ed infine stando ai dati del ministero della Migrazione, "nel 2014 sono state 493.990 le famiglie che sono fuggite dalle proprie province" a causa della violenza.