Il 25 maggio 1979, Alien invadeva le sale statunitensi: il successo di pubblico era immediato, quello di critica non unanime (lo diventerà in seguito al raggiungimento dello status di “cult”).
Avrà tre sequel (il robustissimo Aliens – Scontro finale di James Cameron, 1986, dal sottotitolo italiano poi smentito; lo spento Alien 3 di David Fincher, 1992; il frenetico Alien – La clonazione di Jean-Pierre Jeunet, 1997), ai quali ha di recente fatto seguito un florilegio di prequel (inaugurati da Ridley Scott nel 2012 con l’ambiziosa e irrisolta macelleria di Prometheus, la cui satira di TedX e dei creatori della postumanità tornerà, ancor più cupa, in Blade Runner 2049) e “crossover” (tediose risse con Predator, altro bestione extraterrestre, già sderenato da Schwarzenegger in un’angosciante perla di John McTiernan).
Ridley Scott, cineasta inglese, era quasi un debuttante nella grande produzione di lungometraggi (era già esperto in corti, documentari e pubblicità): ma già di gran vaglia. Alien era al centro di un maestoso trittico, realizzato in un lustro: tra il bellissimo I Duellanti (1977) e il magnifico Blade Runner (1982).

I Duellanti, da un racconto lungo o romanzo breve che dir si voglia di Joseph Conrad, è una sontuosa, elegantissima e raffinata rivisitazione del film in cappa e spada: un linguaggio cinematografico nuovo, nel pieno rispetto dell’atmosfera e dell’ambientazione in epoca napoleonica (altro livello, rispetto all’attuale tendenza, seguendo la quale in ogni epoca e in ogni parte del mondo ci si comporta come gli americani dei telefilm del Duemila).
Blade Runner, dallo stravolgimento d’un romanzo di Philip K. Dick, è uno dei film più belli e grandi di sempre: esercita tuttora un’influenza incalcolabile su tanto immaginario pop (cinema e letteratura di fantascienza, fumetti e cartoni animati giapponesi, musica metal e punk…), si pregia d’una delle frasi più famose della storia del cinema (ho visto cose che voi umani…) e dell’inarrivabile colonna sonora di Vangelis, oltre che di un’atmosfera unica, immagini bellissime e scene struggenti.
Fra queste due pietre miliari del cinema mondiale, si colloca appunto Alien. Se I Duellanti e Blade Runner sono gli adattamenti (l’uno fedele, l’altro stravolto) di due romanzi, e sono stati ambedue realizzati seguendo una precisa intenzione (per I Duellanti, rinnovare il film in costume; per Blade Runner, portare nel futuro il fascino del film noir), la genesi di Alien è incidentale.
Si comincia dalle visioni di Dan O’Bannon, scrittore di fantascienza con all’attivo anche un film, Dark Star, sia da autore che da attore. Assieme a Ronald Shusett, O’Bannon comincia a pensare a un altro film di fantascienza, che non sia però comico come il precedente, bensì horror.
Partecipando al progetto, mai realizzato, di una versione di Dune (classico della letteratura di fantascienza, poi filmato – in maniera pedestre – da David Lynch) che avrebbe dovuto essere diretta da Alejandro Jodorowski e interpretata da Salvador Dalì, O’Bannon si imbatte in Necronomicon, tomo illustrato da H.R. Giger, artista svizzero con una fobia per la riproduzione (una delle sue opere più famose, Macchina procreatrice, mostra una pistola caricata con mostruosi embrioni) e una mania per le schifezze (non per nulla ha collaborato con Timothy Leary, l’uomo schifoso per antonomasia).
Dagli incubi di Giger, e dalla visione di tanti film di fantascienza (sia classici che b-movie), O’Bannon trarrà la sceneggiatura di Alien, che sarà prodotto da Shusett assieme a un grande regista di film d’azione e polizieschi, Walter Hill. O’Bannon e Shusett avranno poi l’idea, molto azzeccata, di scegliere per regista Ridley Scott, intuendone il grandissimo talento visivo e la capacità di mettere in scena atmosfera e tensione. Disegnato da Giger, l’alieno sarà realizzato dal maestro italiano degli effetti speciali, Carlo Rambaldi, e “interpretato” da Bolaji Badejo, un ragazzo nigeriano tanto alto da riempire il costume.
Alien non è un’opera straordinaria soltanto perché, sopportandone gli effettacci grandguignoleschi e la suspence torturante, è un film bellissimo; lo è per aver anticipato la cosiddetta crisi del maschio occidentale. Non perché la protagonista, la tostissima Ripley, sia una delle più rimarchevoli eroine della storia del cinema, interpretata con nerbo da Sigourney Weaver (allora nota soltanto a Broadway, diventerà una diva, senza restare intrappolata nel personaggio pur continuando a interpretarlo in quattro episodi fra il ’79 e il ’97). C’è senz’altro una chiara impronta femminista: già nella scelta di rinunciare, per il ruolo protagonista, a Paul Newman, e affidarlo invece a un’attrice; e per quel che riguarda il secondo episodio, intenzione dichiarata di James Cameron (ex marito e tuttora amico di una donna-regista fortissima, Kathryn Bigelow) sarà ritrarre una donna che si erge a figura dominante in un ambiente maschile.
Piuttosto, perché l’alieno (almeno: lo Xenomorfo, antagonista del primo episodio; perché soltanto dal secondo, gli alien saranno anche femmine – su tutte, la Regina che duellerà con Ripley nel secondo film) è un maschio perfetto nella sua efficacia come nella sua idiozia. Ha una sola capacità: uccidere – talento nel quale è inarrivabile, ma sa fare soltanto ciò. Non prova emozioni né sentimenti, è soltanto ostile. Non è insomma, Roy Batty, l’androide maestosamente interpretato da Rutger Hauer in Blade Runner: creato per uccidere, e capace di altissimi slanci poetici.
Questo temibile imbecille è, soprattutto, un maschiaccio: uccide penetrando, violando. Non spara né accoltella, non sbrana né dilania: entra. Ingravida, perché una volta penetrato il corpo della vittima ci impianta le uova. La famigerata uccisione di Kane (il personaggio di John Hurt) è uno stupro: il facehugger lo violenta per via orale, inseminandone il corpo che suo malgrado “partorirà” (O’Bannon dirà d’essersi ispirato al morbo di Crohn che aveva appena cominciato ad affliggerlo, e lo stroncherà) il bestione di due metri abbondanti, testa dalla forma fin troppo eloquente (un minchione in tutti i sensi) e boccaccia perforante che, non pago d’aver trapanato quasi tutto l’equipaggio, si regalerà la visione d’uno spogliarello di Ripley.
Un attore colto e intelligente, Max Von Sydow, si rimproverò d’aver interpretato il ruolo eponimo in L’esorcista, considerandolo un film ostile ai bambini, perché derivato dalla paura del sovrappopolamento mondiale. Chissà se, sei anni dopo, ha pensato lo stesso guardando Alien.
Il cinema di fantascienza salutava gli anni ’70 con questo horror misandrico; gli anni ’80 avranno i trionfi degli ipertrofici Stallone & Schwarzenegger (ma i virilissimi Rambo e Terminator saranno l’uno forse asessuale, l’altro semplicemente inumano); il terrore omofobico conseguente all’epidemia di AIDS sarà anticipato da William Friedkin con Cruising, con Al Pacino poliziotto affascinato dalle violenze su cui indaga – gli risponderà Clint Eastwood in Corda tesa, sbirro macho che si interroga sulla liceità delle proprie tendenze, mantenendosi però eterosessualissimo. Si arriverà, nel 1987 e ’89, ai due sacrileghi film (Zona pericolo e Vendetta privata) in cui Timothy Dalton è un James Bond cupo, complesso, violento e… casto.
Alien si è rivelato profetico non soltanto per il cinema, di fantascienza e non, che lo ha seguito. La crisi del maschio occidentale è uno dei balocchi preferiti del pensiero unico, che tanto sbandiera la necessità di debellare la “mascolinità tossica”. In questi quarant’anni, così come si è scesi da un film dell’orrore di qualità come Alien ai film d’azione che sembrano prodotti con la playstation, si è passati da John Wayne ai fighetti levigati derisi da Eastwood in The Mule (i “voialtri” cui rimprovera di stare sempre appiccicati allo smartphone).
Alien è stato anticipatore di questo declino e, con la sua splendida laidezza, il suo orrore grandguignolesco, la sua assenza di lirismo (anche qui, Blade Runner è lontanissimo), il suo compiacimento per la violenza, per il terrore e per la sofferenza dei personaggi, una piccola parte in esso l’ha avuta.