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Inghilterra, 1700. Semi-immobilizzata dalla gotta, e impazzita per la perdita di tutti e 18 (non 17, come detto nel film) i figli, Anna Stuart (con la quale termina la dinastia: non avendo lei eredi diretti, il regno passerà agli Hannover), regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda si trova in balia della sua temibile favorita, Sarah Churchill duchessa di Marlborough, moglie del comandante del contingente inglese impegnato nella Guerra di Successione Spagnola. Costei accoglie a corte Abigail Masham, figlia di un nobile caduto in disgrazia; ne fa la sua allieva di maneggi cortigiani, salvo scoprire che è persino più perfida di lei.

Un Greenaway con più note stonate dell’originale. Sembra a tratti di rivedere I Misteri di Giardino di Compton House – che era però un film epocale; La Favorita è “soltanto” un film molto bello. La sua pecca, indulgere al diffusissimo vizio (si pensi all’abietto telefilm sui Tudor) di far parlare e ragionare gli europei di Rinascimento ed Età Moderna come gli americani del Duemila. Anche i personaggi della pietra miliare di Peter Greenaway dicevano oscenità (anzi dicevano soltanto quelle, e pure in abbondanza), ma calligrafiche. Andava riguardato il precisissimo, magnifico I Duellanti di Ridley Scott.
Resta un film prezioso, per il coraggio di proporre un film elegante pubblico un prodotto raffinato, anche un po’ pretenzioso, eccessivo, a un pubblico cui tali occasioni si offrono sempre meno. La buona notizia è che si tentano, ormai, abbastanza spesso progetti in questa direzione (un altro bel film d’autentica cultura barocca è stato Il racconto dei racconti, produzione internazionale diretta quattro anni fa da Saverio Costanzo; più recentemente, con Suspiria – che con La Favorita condivide, oltre alla suddivisione in capitoli dai titoli balzani, la vicenda di virago che non disdegnano di balzarsi addosso fra loro – Luca Guadagnino, al suo primo film bello, ha portato nella grande distribuzione una proposta bella e intelligente), ottime alternative a un cinema contemporaneo che in America sa soltanto produrre baracconate da videogioco, e in Europa commediette e drammucci da salotto fatti con lo stampino – è la tragedia del cinema italiano e di quello francese: non andare quasi mai oltre quelle che Battiato chiamava “storie di sottofondo, Dallas e I ricchi piangono”; ci vuole un’altra vita, ci vuole un altro cinema. Che differenza tra i filmetti con la solita locandina, le solite facce (Rorwacher Battiston Lo Cascio Buy Giallini Mastandrea…), le solite storie di borghesia progressista che se la canta e se la suona spaparanzata sul divano di design, e questa bella, grottesca, raccapricciante storia di streghe che intrigano, minacciano, pasticciano, sparano, si picchiano fra arazzi, livree, torte colossali, corridoi, candelabri, soda caustica e tiri al piattello (vivo).
Nonostante i compromessi (qualcuno ha parlato di denuncia di un oppressivo sistema “patriarcale”… perché allora le tre protagoniste dettano legge ai babbei più o meno virili che le circondano?) con l’attualità (in senso nicciano), con le fissazioni del politicamente corretto (quanto sono prevedibili, e previsti, i risvolti saffici?), il film è bello: sontuoso, più cerebrale che intelligente, elegante, recitato bene dalle sue protagoniste – gli uomini, relegati sullo sfondo, ci restano.
È stata premiata con la Coppa Volpi la performance sopra le righe di Olivia Colman (nel ruolo della regina Anna), attrice di grande esperienza teatrale; ma la grande attrazione è il duello tra Rachel Weisz (Marlborough la mora), ed Emma Stone, (Masham la fulva): la recitazione ben calibrata della fascinosissima, tenebrosa Weisz, contro l’espressività esagerata della Stone coi suoi occhioni sgranati.
Yorgos Lanthimos, intellettualissimo regista greco ormai stabilitosi a Hollywood, realizza un film di qualità superiore alla media coeva. La Favorita è manierista (e ripetitivo: l’effetto fisheye torna troppe volte; molti movimenti di macchina sono azzeccati, altri pasticciati), colto (pur essendo un pastiche che dell’accuratezza storica e biografica poco si cura), visivamente bellissimo. Ma sconta la mancata rinuncia a essere un film del Duemila: un grande spreco, perché a realizzare un film che stesse alla pari con altri due classici sul Settecento – il citato Compton House di Greenaway, e Barry Lyndon di Kubrick – non mancava molto. Come questi, è un film su di una società senza sentimento: tantissimo sesso, niente amore (però Anna – personaggio storico ben più degno di quel che il film non mostri – si staglia sugli altri personaggi proprio per la sua disperata ricerca di affetto).
Sarebbe stato ancor più bello un film che mantenesse la promessa delle locandine: surreale, più bizzarro, più grottesco. Esagerato, barocco: la musica dell’epoca, che pervade (una gioia: Schumann, Schubert, Vivaldi, Bach, Purcell, Handel ) la colonna sonora, questo sta a rappresentare. Questa corte di scimuniti che scommettono sulle corse delle oche, si accoppiano e azzannano nei boschi come la selvaggina e sostituiscono i figli con conigli ben ci si prestava. Uno zodiaco bello e feroce come la Marlbourough che torna dal bosco vestita da damerino e con la benda da pirata.