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Home Rassegna Stampa

Alain Finkielkraut/ Dall’America liberal arriva il “razzismo umanitario”

di Redazione
25 Settembre 2020
in Rassegna Stampa
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«Da questo feroce miscuglio, “tutti fascisti, tutti razzisti, tutti delinquenti del pensiero”, traggo una doppia conclusione: la folle estensione del campo del razzismo sostituisce, dopo la tregua antitotalitaria, la vita intellettuale sotto il paradigma di una guerra all’ultimo sangue, e la libertà di espressione, a lungo difesa dalla stampa contro gli sconfinamenti del potere, è ora osteggiata da alcuni giornali in nome, secondo loro, dell’umanità universale».

Così un efficacissimo Alain Finkielkraut al Figaro, denunciando l’avanzata di un conformismo moralizzante, vendicativo e intollerante d’importazione americana e nutrito in Francia dall’emanazione continua di «liste di proscrizione» e dal contrappasso, per chiunque osi esprimere preoccupazione per un tema non conforme all’ideologia antirazzista, della scomparsa dallo spazio pubblico. Scrittori, giornalisti e uomini di pensiero trattati alla stregua di «reazionari» o tacciati di razzismo solo per aver messo a tema l’avanzata dell’islam radicale: oggi in Francia dallo stigma dell’intellettuale «nazional-populista» (promosso in primis dalle inchieste di Le Monde) non si salva nessuno; perfino alle vittime della strage di Charlie Hebdo, nei giorni in cui si celebra il processo sul massacro avvenuto il 7 gennaio 2015, viene riservato da molti pretoriani della libertà di espressione lo stesso trattamento usato verso i colpevoli (colpevoli di avere abusato di tale libertà «sputando sulla religione dei deboli»).

Ma che libertà è quella costretta in una camicia di forza ad ogni latitudine di opere e pensieri culturali? Secondo i molto progressivamente aggiornati dettami preparati dall’Academy per l’assegnazione degli Oscar, esemplifica Finkielkraut, «i cineasti non sono più liberi di immaginare i loro personaggi e i personaggi stessi non sono più liberi di essere personaggi: sono ridotti a esemplari. Non sono più individui, ma rappresentanti. Nessuna malvagità, nessuna ambiguità è consentita a coloro che rappresentano gruppi minoritari. Questi eroi positivi devono superare con il loro comportamento esemplare i pregiudizi degli spettatori. Un nuovo realismo socialista sta prendendo piede e non è prescritto da uno stato totalitario, è voluto e attuato dalla stessa comunità cinematografica».

Lo stesso discorso vale per i promotori della petizione per portare e unire al Pantheon le spoglie dei poeti Arthur Rimbaud e Paul Verlaine. Non solo «non hanno niente a che fare col “mausoleo delle glorie nazionali”» ma le argomentazioni avanzate da un intero battaglione di ministri della cultura sono per il filosofo «agghiaccianti». Secondo gli intellò, Verlaine e Rimbaud avrebbero infatti «arricchito la nostra eredità con il loro genio. Sono anche due simboli di diversità. Hanno dovuto sopportare l’implacabile omofobia del loro tempo. Sono i francesi Oscar Wilde»: «Due poeti unici e incomparabili vengono requisiti per canonizzare il matrimonio gay e porre fine al regno dell’”eteronormatività” – tuona il filosofo -. Che miseria! Che spudorata strumentalizzazione della letteratura! Che stravolgimento della cultura da parte dei politici responsabili di quarant’anni della sua amministrazione!». Ovviamente non mancano prestigiosi avversari dell’iniziativa, ma non appena escono allo scoperto «vengono chiamati omofobi».

Dopo la normalizzazione del titolo francese del romanzo Les Dix Petits Nègres di Agata Christie (che in ossequio al politicamente corretto è diventato Ils étaient dix) Finkielkraut si chiede chi sarà il prossimo, «il titolo del capolavoro di Joseph Conrad, Le Nègre du “Narcisse”, subirà inevitabilmente la stessa sorte. E non tollereremo per sempre la giustificazione della schiavitù di Aristotele o la presenza della parola “razza” nelle opere di Racine, Malherbe o Péguy. I “lettori sensibili” che leggono i manoscritti nelle case editrici americane, un giorno o l’altro, rettificheranno i vecchi testi per adeguarli agli standard del tempo presente, ritenendo, con la diversità, di aver risolto ogni problema umano. Non si cerca nei libri la verità dell’esistenza, se ne verifica la conformità con il vocabolario che usa e con i princìpi che afferma. Infatuati della sua ineguagliabile apertura, ci si chiude definitivamente su se stessi».

Secondo il filosofo, che ha insegnato a Berkeley tra il 1976 e 1978, la censura muove velocemente dalle università americane: all’epoca non esistevano i “safe space”, l’isteria contro il maschio bianco europeo, tanto meno i trigger warning, «la sinistra (compresa la mia) era in declino e la “cancel culture” dei nuovi radicali non aveva ancora preso il sopravvento. La trasmissione del sapere non era sorvegliata dal politicamente corretto. Oggi, da Berkeley alla Columbia, ciò che viene offerto in ambito umanistico è un lavaggio del cervello sistematico. Se un’università americana avesse l’idea di invitarmi a un seminario o a una conferenza, verrei “cancellato” a tempo record. Non necessariamente starei meglio in un’università francese». E non c’è che un modo per salvare la cultura occidentale da una visione del mondo che ne ha stravolto, fino a ucciderlo, il suo significato: «Denunciare instancabilmente questo gioco di prestigio».

 

Tempi, 25 settembre 2020

Tags: Alain Filkielkrautfilosofiarazzismo
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