Una piccola, buona notizia: i Duran Duran celebrano il quinto anniversario dalla scomparsa di David Bowie con una cover di “Five Years” (brano d’apertura dell’album “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”, 1972). Un po’ macabro il riferimento nel titolo, ma la scelta è pregevole. Spacciati a lungo, a causa del mastodontico successo di pubblico (è una colpa?), per paccottiglia (da gente che di un disco come “Rio” non saprebbe scrivere nemmeno una minima parte), Simon Le Bon e soci dimostrano per l’ennesima volta di conoscere la musica pop meglio di molti altri, che magari vanno in brodo di giuggiole per la milionesima cover di “Heroes” gettata lì dall’ennesimo cantante impaziente di omaggiare un artista del quale non conosceva l’esistenza finché non è morto.
Gli omaggi a Bowie soffrono di questo: sul carrozzone è salita gente che non ci ha mai avuto a che fare, ma che ha colto l’occasione per pubblicare qualcosa senza dover fare lo sforzo di comporla. Artista fondamentale per tutta la musica pop (pure di quella brutta) da quarant’anni a questa parte, complici i pessimi rapporti con la stampa, Bowie ha sempre avuto pessima pubblicità. Nel 1979 compose una canzone perfida, “DJ”: e infatti quelli che lo riveriscono nel modo peggiore sono loro, gli “speaker” radiofonici, categoria che in Italia è particolarmente dozzinale, volgare: da Radiomontecarlo a Radio Capital, prolifera un’aneddotica greve, ripetitiva; prima di lanciare una delle solite due o tre canzone, annunciandola con l’anno invariabilmente sbagliato e ovviamente pronunciando il cognome (d’arte) “Baui”, in Italia è tradizione accompagnare i brani del maggior artista pop del secolo scorso con sempre le stesse cretinate, col solito umorismo da impiegati di banca – una volta furoreggiava l’episodio, molto dubbio, della moglie Angie che sorprende Bowie a letto con Mick Jagger (collocato a volte prima del Live Aid, quando Bowie si era da tempo disfatto delle pantomime gay), ora si preferisce raccontare che prima di duettare in un concerto, lui e Tina Turner si sarebbero congiunti in camerino.
Sarebbe interessante uno studio antropologico sul perché da qualche anno a questa parte la mentalità degli “speaker” italiani sia improntata a questo qualunquismo da analfabeti: il discorso diventerebbe più ampio, inquadrando la mania collettiva per il livellamento verso il basso – un solo esempio, a proposito di inglesi del secolo scorso: il culto cretino per Lady Diana, idolatrata solo e unicamente in quanto primo personaggio d’una casata reale a comportarsi come una sciampista qualunque; siamo nell’epoca dell’astio verso l’altezza, del cinismo.
Un bell’articolo di Lynsey Hanley, pubblicato l’otto gennaio (compleanno dell’artista) dal Guardian, sostiene: “His life is a rebuke to cynicism – What five years without David Bowie had taught us” (“La sua vita è una replica al cinismo – Quel che cinque anni senza David Bowie ci hanno insegnato”). I mediocri si compiacciono di ripetere gli aspetti più bassi del personaggio: la dipendenza dalla cocaina (odiata fin da subito), le scappatelle da sposato con uomini e donne e per carità, difetti ne aveva (e restano fatti suoi). Ma va ricordato (e non si tratta di scadere nell’idolatria) che David Bowie è stato un’artista eccelso, un uomo molto più intelligente della media, colto come un professore di Oxford e bello come un dio greco, un lavoratore fanatico.
“Something happened on the day he died
Spirit rose a metre then stepped aside
Somebody took his place, and bravely cried
I’m a Blackstar, I’m a Blackstar”
Il dieci gennaio di cinque anni fa, due giorni dopo il suo sessantanovesimo compleanno, David Bowie tornava fra le stelle. Aveva appena lasciato dietro di sé “Blackstar”: un disco bellissimo e terrificante, barocco e funereo, a tratti inascoltabile da tanto lascia sgomenti.
Ci ha lasciati soli con i residui dei talent-show, con i trapper, con gli influencer. Ascoltiamo la sua musica più spesso, sperando che dal suo ricordo scaturisca una stella nera, più bella e più brillante.