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Berlino ieri, Hong Kong oggi. I comunisti non perdono il loro vizietto preferito: reprimere

di Vincenzo Pacifici
15 Novembre 2019
in Home, Mondi
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Berlino ieri, Hong Kong oggi. I comunisti non perdono il loro vizietto preferito: reprimere

   Ai tanti democratici, o meglio sedicenti  tali, che hanno retoricamente festeggiato, giungendo quasi alla solennizzazione, il 30° anniversario della caduta del “muro di Berlino”, sfugge l’insanabile incongruità della loro posizione.

   Il comunismo, il loro comunismo, non è affatto morto, ha semplicemente mutato volto. Almeno in Italia le linee politiche del partito comunista, magari ipocritamente camuffato da democratico con il consueto appoggio del naturale alleato e sodale, il cattocomunismo, non hanno perduto uno iota delle radici contrarie all’Occidente, alle sue tradizioni, alla sua mentalità, alla sua morale o, per dirla per intero, alla sua natura. Basta dare un’occhiata anche superficiale per accorgersi degli attacchi diuturni recati alla nostra società ed alle sue radici.

   Prendendo in prestito, anche se può apparire una idea quasi blasfema, le tre prove dell’esistenza di Dio, elaborate da Cartesio e dal più lontano Anselmo d’Aosta, tre, due minori ed una eclatante, sono le dimostrazioni della presenza e della permanenza del comunismo e della sua mentalità prepotente e naturaliter prevaricatrice

   Di fronte ai dibattiti televisivi, delle reti pubbliche e del canale di proprietà dell’amico di Berlusconi, Urbano Cairo, velenosi ed acidi, perdono intensità i precedenti, solo animosi, delle “tribune elettorali”, che avevano per protagonisti da un canto Almirante ed esponenti della sinistra e dall’altro i giornalisti Maurizio Ferrara, Rocco Mangione e Cesco Giulio Baghino.

   Basta poi una rassegna, condotta sugli annunzi pubblicati nell’ultimo mese, per ottenere la testimonianza operativa della sinistra in campo culturale. Presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana, ormai asservito, è stato presentato un lavoro di denunzia della “giustizia vendicativa gialloverde” (?). La Fondazione Gramsci, per nulla perduta, a differenza di quelle di destra, legate ad iniziative di smaccato esibizionismo rampantistico o al più impegnate nella locazione di immobili, ha dedicato convegni sul lavoro di Togliatti, Lezioni sul fascismo e su un testo, sconvolgente la realtà storica, intitolato Cultura, passioni e formazione nei quadri e funzionari del PCI (1945 – 1981).

   Ma è a livello internazione che si coglie la testimonianza più concreta e grave della forza devastante del comunismo. Le cronache, infatti, riguardanti le vicende di Hong Kong non mancano ma appaiono obbligate, fredde, asettiche e quindi acritiche. Se è vero che sono registrate le giornate di sangue, è vero anche che si tenta faticosamente e telegraficamente di circoscrivere le proteste, sostenendo che “per buona parte [?] della popolazione della ex colonia britannica nemica è la polizia, nemici sono il il governo locale e quello centrale cinese”.

   Dopo un incontro tra Xi Jinping, il padrone della Cina, non per nulla definito l’”imperatore”, e la governatrice di Hong Kong, “testa di legno” del potere centrale, il plenum del Comitato centrale del partito ha ricordato che la città deve rispettare “la legge sulla sicurezza nazionale”, altrimenti “soffrirà costi insostenibili”. In questi giorni si è stabilito senza equivoci e fraintendimenti che riportare l’ordine è “il compito più urgente”.

   Un giovane, elemento di punta della protesta, ha escluso qualsiasi legame con la Cina ed ha denunziato con estrema chiarezza, tra il silenzio del mondo occidentale, passivo, inerte e bottegaio, che “la città è stata trasformata in uno stato di polizia dove tutti i diritti naturali sono negati”.

   Pochi sanno, tra i pochissimi che seguono o dovrebbero la storia di quella città, che nel 1984 Deng Xiao Ping, il precedente “padre padrone”, e Thatcher firmarono una dichiarazione congiunta, in cui era stabilito che i territori sarebbero tornati a far parte della Cina a partire dal 1997, “anche se la Cina si impegnava a non instaurare immediatamente il sistema socialista, lasciando invariato il sistema economico della città per almeno 50 anni, fino al 2047”.

   Il comunismo, recte il socialismo monopartitico, non perde i propri connotati portanti con buona pace del ministro degli Esteri del secondo farsesco gabinetto, nato dalle elezioni del 2018, capace di esaltarsi puerilmente per la straordinaria vicinanza tra l’Italia e la Cina, segnata in questi anni.

    Purtroppo, però, non è solo lo “statista” partenopeo a prostrarsi servilmente ad un regime mai sufficientemente contrastato.

Tags: CinacomunismoHong Kong
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