Continuano le avventure delle sorelle Elsa, regina delle nevi sociopatica, e della principessa border-line Anna. Grazie al compatimento di Anna, del di lei fidanzato schizoide (parla con la renna Sven) Kristoff e del pupazzo di neve autolesionista (lo attirano le fonti di calore) Olaf, Elsa sembra imparare a comportarsi urbanamente; ma quel che resta della sua salute mentale va definitivamente a remengo, quando comincia a udire una voce. Perso il sonno, non trova nulla di meglio da fare di risvegliare gli spiriti della foresta ed evacuare tutta Arendelle (sembra una gag di Aldo, Giovanni & Giacomo: non vedo perché se alle 4 di mattina io devo essere sveglio, gli altri possono dormire).
Sei anni fa, “Frozen – Il regno di ghiaccio” riportava vita ai film Disney. Da quasi due decenni un “classico Disney” non otteneva successo né di critica né di pubblico, né trovava riscontro fra gli ammiratori. Bisognava tornare al 1996, con “Il gobbo di Notre Dame”; già i suoi immediati successori (“Hercules” e “Mulan”) stentavano a far breccia tra i cuori del pubblico; “Tarzan” si rivelava un disastro, e “Fantasia 2000” passava inosservato. Fra il 2000 e il 2011, la situazione degli studios di Burbank era tragica: i film, sempre più costosi (dato l’uso e abuso del CGI), incassavano sempre meno; le recensioni erano puntualmente (e comprensibilmente) negative; il marchio Disney non era più un indiscusso sinonimo d’intrattenimento per famiglie di alta qualità. Una nicchia di seguaci attribuiva lo status di “cult” a “Le follie dell’imperatore” e a “Lilo & Stitch”, ma ciò non bastava a risollevare oltre un decennio di delusioni (e bilanci in rosso).

Situazione aggravata dalla concorrenza feroce della Pixar, che se già poco dopo la fondazione inaugurava una saga di grande successo (“Toy Story”, dal 1995), proprio durante il nadir disneyano trovava conferme con “Alla ricerca di Nemo” (2003) e più avanti realizzava la micidiale tripletta “Ratatouille” (2007), “Wall-E” (2008) e “Up” (2009).
Pixar che si è però impantanata in una sequenza di sequel (“Alla ricerca di Dory”, i vari “Cars” e “Incredibili”); così che, preso nel 2013 atto della resurrezione disneyana con “Frozen”, il solo grande film firmato Pixar negli anni ’10 è frutto di un’alleanza con la Disney: il bellissimo “Coco”, del ’17.
Resurrezione disneyana tutt’altro che stabile: nei sei anni seguiti al primo “Frozen”, anche per la Disney il solo sussulto è stato appunto “Coco”. Tutt’attorno: un altro sequel (per la serie “Ralph spaccatutto”), e le nuove versioni di classici (“Il libro della giungla” e “Il re leone” in CGI, “Aladdin” e “Dumbo” con riprese dal vivo). Si è così tornati a “Frozen”.
Già il primo episodio, “Frozen – Il regno di ghiaccio” aveva dato problemi: particolarmente difficili erano state le trattative con i discendenti di Hans Christian Andersen (la dichiarata ispirazione del cartone è la sua fiaba “La regina delle nevi” – nella quale però Elsa & Anna sono nemiche), e gli animatori si imbarcarono in un viaggio in Norvegia per studiare l’acqua dei fiordi e la neve; portarono poi una renna negli studi Disney, a far da modello per Sven. La lavorazione complicata fu però premiata: dalle recensioni quasi unanimemente favorevoli, dal pieno successo al botteghino (150 milioni di dollari spesi, quasi un miliardo e 300 milioni incassati), e da un fenomeno di costume andato ben oltre le sale cinematografiche e l’home video: libri, giocattoli, musical, concerti, vestiti, anche accessori per l’arredamento… dal 2013 “Frozen” è un marchio dalle proporzioni quasi pari a quello Disney.
Uscito, come il predecessore, a ridosso del Giorno del Ringraziamento, “Frozen II – Il segreto di Arendelle” è stato perciò preceduto da un battage pubblicitario colossale e dal massiccio riversamento di prodotti d’ogni tipo nei negozi. Il pubblico ha risposto immediatamente.
Come ci si poteva aspettare, “Frozen II” è il riflesso dell’episodio capostipite: la scena meglio riuscita è quella in cui Olaf racconta, imbastendo da solo uno spettacolo di teatro kabuki, le precedenti peripezie delle due principesse. Ci sono ancora lo smascheramento d’un personaggio in apparenza nobile, un incantesimo da spezzare, una frase ricorrente (stavolta è “l’acqua ha memoria”). La trama è esilissima (ma qualche spettatore adulto ci si è perso), quasi assente: è soltanto il pretesto per delle avventure che a loro volta servono da sfondo alle gag, quasi tutte affidate al loquace Olaf e al suo humour folle (un po’ monotone le battute scatologiche); secondariamente, al duo Kristoff-Sven (l’altra gran scena comica è la serenata di Kristoff per Anna, con coro di renne e parodia dei videoclip sdolcinati, con citazione da “Bohemian Rhapsody”).
Non potevano mancare le proteste degli opinionisti (leggi: nullafacenti) LGBT. Un anno e mezzo prima dell’uscita (annunciata con enorme anticipo) del film, si vociferava che Elsa (salutata, già all’uscita del primo episodio, come icona “ace”: asessuale) avrebbe finalmente trovato l’amore: saffico. Finché Kristen Bell, la cantante e attrice che doppia Anna, non ha incautamente (legittimo pensare che la manovra fosse pilotata) svelato dettagli su “Frozen II”: ed ebbene no, Elsa resta (oltre che misantropa e arrogante) nubile.
La fuffa arcobaleno si è poi scandalizzata per i trailer: troppa azione, e violenza (che hanno visto solo loro). E per le anteprime della locandina: i personaggi (Olaf ovviamente escluso) hanno espressioni bellicose. Si aspettavano tutto più morbido, tenue, come nel loro mondo di ovatta.

“Frozen II – Il segreto di Arendelle” è senz’altro uno spettacolo valido, intrattenimento di qualità. Si ride, e pure tanto. Il doppiaggio italiano può ancora avvalersi di Serena Autieri e Serena Rossi, che prestano ancora le voci a Elsa & Anna, anche stavolta molto bene; supportate non più da Martina Stoessel, ma da Aurora, cantante norvegese già presente nella colonna sonora del nuovo “Dumbo”. Piccola citazione di Andersen (compare il libro di “uno scrittore danese), forse per pacificare gli eredi. La colonna sonora manca d’una canzone che possa diventare un classico come “Let It Go”, ma è più vivace e variegata della precedenza. La sceneggiatura è ancora di Jennifer Lee. Entrambi i film sono usciti in prossimità del Giorno del Ringraziamento.
Dice poco, ma lo dice bene: rintuzza l’individualismo di Elsa (“avevi promesso che l’avremmo fatto insieme”), la quale si trova ancora a dover accettare d’essere parte integrante d’una famiglia e d’una comunità (come in “Il re leone”: non il nichilismo della “linea retta e indifferente” di Hakuna Matata, ma il cerchio della vita); sprona a crescere, continuando però a stupirsi e senza pensare mai d’avere tutte le risposte in tasca (esilarante la scena in cui Olaf canta la sua certezza di scoprire tutto, mentre non si accorge dei pericoli incombenti); ribadisce bellezza e preziosità della memoria e del retaggio famigliare (come “Coco”): la risposta al problema presente va trovata nel passato; il cammino di Elsa & Anna per garantire un futuro ad Arendelle è un percorso fra i ricordi (i loro, e quelli dei genitori), avanzano arretrando e infine tornano al punto di partenza; Olaf rivive rigenerato attraverso il ricordo di sé.
Sembrerà strano, ma l’attenzione spasmodica con la quale Anna si prende cura della sorella è più importante rispetto a stabilire se Elsa sia asessuale o lesbica. La soluzione del primo episodio stava in un gesto d’amore fra sorelle, non nella loro collocazione fra le identità “gender”.