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Home Penna Pellicola Palco

Dare un senso al lavoro per dare un senso alla vita. Un percorso

di Domenico Bonvegna
20 Ottobre 2020
in Penna Pellicola Palco
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Qual è lo scopo della vita? Il denaro? Il lavoro? Il successo, la carriera? Per gli antichi era conseguire le virtù. Certamente il lavoro nella vita di una persona è qualcosa di essenziale. Parlando di lavoro non è difficile ascoltare o leggere frasi come queste: “L’italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. “Il lavoro nobilita l’uomo”. “Il lavoro è il modo migliore di far passare la vita”. Tuttavia, possiamo dare un senso al lavoro? A questa domanda risponde un piccolo saggio appena pubblicato dalla casa editrice milanese, SugarcoEdizioni, «Il tuo lavoro ha un senso? Un percorso terapeutico per migliorare la vita lavorativa», l’autore è uno psicologo e psicoterapeuta Stefano Parenti.

Mentre leggevo il testo di Parenti, mi chiedevo se aveva un senso per me leggerlo, ora che ho raggiunto da qualche anno la pensione. Probabilmente mi sarebbe servito negli anni in cui lavoravo. Comunque sia la sua lettura è utile anche per me. Nell’invito alla lettura, il professore Giacomo Samek Lodovici è convinto che «questo libro, prezioso, semplice e insieme profondo, aiuta a riflettere sul senso del lavoro, in chiave anzitutto antropologica».

Il testo di Stefano Parenti vuole favorire il recupero di un sano senso del lavoro, per tutti quelli che l’hanno perduto e per quelli che desiderano riscoprirlo. Il testo inizia con una lunga citazione dello scrittore francese Charles Peguy, una splendida pagina scritta nel lontano 1913. Ai tempi della sua infanzia, racconta Peguy, «nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava; oggi si sbuffa». Sostanzialmente non si cantava perché le retribuzioni erano elevate, anzi in quei tempi si guadagnava pochissimo. Eppure la gente si alzava e cantava, «[…]abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare».

E’ interessante seguire le parole di Peguy: «[…] Ho veduto, durante tutta la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali[…] Come nel Medioevo la maggior parte degli scalpellini scolpiva con la medesima accuratezza e perizia sia le parti della cattedrale visibili agli uomini sia quelle a loro invisibili, ma visibili a Dio (per esempio certi fregi e figure su altissime guglie)». Pertanto, una sedia, doveva essere ben fatta, non tanto per il salario, per il padrone o per il cliente. In pratica, «Doveva essere ben fatta di per sé, in sé […] E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali».

Certamente non sappiamo se tutti lavorassero così all’epoca di Peguy, in ogni caso era più diffuso di oggi. E anche se il passato non va ripetuto ciecamente in tutto, sicuramente ha qualcosa da insegnarci.

Parenti da anni gestisce il presidio socio-psicologico di una grande azienda nel Milanese, ha grande esperienza di ascolto e di consulenza psicologica ai dipendenti e ai professionisti. Pertanto conosce diverse tipologie di lavoratore, da quello che è «insofferente, svogliato e stanco, oppure quello frenetico, competitivo, stakanovista, quello che non vede l’ora di timbrare il cartellino ed escogita sotterfugi per evitare qualsiasi fatica e per restare a casa in malattia, oppure quello che lavora volontariamente (non per costrizione) anche il sabato e domenica, quello i cui problemi lavorativi si riversano nell’ambito familiare». Tra queste tipologie, quelle più frequenti sono il lavoratore insofferente, con il suo lamentarsi in continuazione, e quello frenetico.

Comunque sia la questione del senso del lavoro è cruciale già per il semplice fatto che la maggior parte della nostra vita trascorre in questo ambito. Per Samek Lodovici, «Se non lo sappiamo interpretare adeguatamente, rischiamo di diventare schizofrenici: o ci si realizza solo nel lavoro o ci si realizza solo fuori dal lavoro».

Il libro di Parenti offre molteplici riflessioni, suggerendo come vivere al meglio il proprio lavoro. E’ fondamentale che l’attività lavorativa diventi espressione dell’amore. Quando facciamo qualcosa per amore, risulta più piacevole e meno gravoso. Andare ogni giorno a lavorare «per mero senso del dovere o solo per lo stipendio è, spesso, molto faticoso; andare invece a lavorare per amore di qualcuno (per esempio di mia moglie, dei miei figli, di Dio se ho  una visione soprannaturale del lavoro) può diventare gratificante o comunque meno gravoso».

Chi lavora per amore, lavora volentieri e serenamente, migliora moralmente se stesso come persona, prendendosi cura degli altri e del mondo in cui vive. In questo modo si acquisisce diverse virtù, come la laboriosità, lo spirito di servizio, lo spirito di collaborazione, la precisione, la prontezza, la sollecitudine. Secondo Parenti si lavora per se stessi, «per diventare uomini virtuosi, temprati, e giusti; per aiutare chi ne ha bisogno; e perché il mondo sia un luogo migliore. Dunque il lavoro è un bisogno dell’uomo: senza non avviene questo sviluppo umano».

Il lavoro ha quattro finalità, che sostanzialmente educano. 1. Serve a procurarsi il necessario per vivere. 2. il lavoro educa gli istinti e gli affetti: attraverso l’impegno si impara a dominare l’emotività, a relazionarsi con gli altri, a temprarsi. In pratica si ama di più quello che si è guadagnato con la propria fatica. Chi ama salire in montagna, sa che è una soddisfazione raggiungere la vetta a piedi e non con la funivia. 3. finalità del lavoro è quello di combattere la pigrizia. 4. lavorare perfeziona la capacità di amare.

Nel 3° capitolo lo psicologo, pone la fatidica domanda: “Vivere per lavorare o lavorare per vivere?”. Nelle pagine Parenti propone una serie di esperienze di come affrontano il lavoro alcuni lavoratori, fa i nomi, ma credo che siano dei pseudonimi. Per avere una vita sana e felice occorre avere una scala di valori, che il nostro riprende dallo psicoterapeuta statunitense Peter Kleponis: 1. Dio; 2.Matrimonio; 3. Bambini; 4. Carriera; 5Amici e famiglia allargata; 6. Se stessi. Quando questa gerarchia viene mischiata, nascono i problemi.

Parenti nel suo libro suggerisce alcuni comportamenti da tenere negli ambienti lavorativi. Nel lavoro occorre sempre dire sempre la Verità, ciò che si pensa, è la franchezza, l’onestà, la sincerità. Non bisogna indossare delle maschere. E’ fondamentale esprimere se stessi. Essere responsabili, Parenti ricorda «che ognuno è chiamato a rispondere del proprio e non dell’altrui. Tante persone, invece, si accollano delle responsabilità indebite; per poi rimanerne schiacciate dal peso». Avere l’umiltà di conoscere i propri confini d’azione e difenderli.

Il 7° capitolo si occupa del trasferimento e qui implica interrogarsi qual è il posto giusto da occupare. Infatti parlare del lavoro comporta anche interrogarsi, «su quella dimensione fondamentale che si chiama vocazione: qual è il mio posto nel mondo?». Parenti per scoprire qual è la propria vocazione nell’ambito del lavoro, suggerisce tre passaggi: 1 Quali sono i tuoi talenti? 2 Come questi talenti possono tramutarsi in un lavoro? 3 Dove il mondo ha bisogno di te? «La terza domanda è la più significativa, perché è quella più disattesa e ribalta la logica delle prime due».

Quando uno capisce di essere fuori posto, non perchè c’è un male e quindi genera lamento, «ma per l’assenza di un bene maggiore che può trovarsi altrove». Verificare i valori per Parenti è un processo continuo fondamentale: che cosa desidero più di tutto? Ho ottenuto ciò che volevo, che cosa desidero adesso? Essenzialmente, «E’ più facile capire chi non si vuole essere, ma non chi si vuole diventare».

Tags: lavoroStefano ParentiSugarco
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