
Stati Uniti, subito dopo la Prima Guerra Mondiale: Holt, cavallerizzo che ha perso un braccio nella Battaglia delle Argonne, torna nel Circo Medici, devastato dalla mancanza di mezzi e pecunia. Una malattia lo ha reso vedovo, così ritrova soltanto i due insopportabili figli. Una elefantessa indiana intanto partorisce un cucciolo dalle orecchie spropositate: dapprima deriso dal pubblico, Baby Jumbo (crudelmente ribattezzato Dumbo, da dumb: “stupido”, per il grottesco capriccio di un’insegna) diventerà l’idolo delle folle.
Frutto di una lavorazione lunghissima, presentata con gran battage pubblicitario, la versione live-action firmata Tim Burton di Dumbo l’elefante volante – pietra miliare dell’animazione realizzata dalla Disney nel 1941 – è un film circolare: narrando la crisi d’un circo, racconta quella della Disney.
Alleanza azzeccata, quella fra Burton e il colosso dell’intrattenimento per ragazzi. Il regista non fa quasi più nulla (sola eccezione, la biografia dell’illustratrice Margaret Keane) d’originale dal bellissimo La sposa cadavere, che era del 2005; da allora, soltanto remake (il carinissimo Frankenweenie era addirittura l’ampiamento di un suo stesso cortometraggio), adattamenti di romanzi e persino d’un telefilm. La Disney sta anche peggio: lo splendido Frozen nel 2013 sembrava averla salvata dal baratro in cui era stata sprofondata dalla concorrenza della Pixar (il cui periodo di gloria è terminato con l’epocale Up, dal quale è già trascorso un decennio): con esso però sono esaurite le idee valide, e si è raschiato il fondo del barile con sequel, remake al computer, remake in live-action, sequel di remake.
Fra l’autunno ’18 e la primavera ’19, la premiata ditta con sede a Burbank ha così lanciato sul mercato un orripilante adattamento dello Schiaccianoci, un sequel di Mary Poppins molto bello, ma comunque frutto di riciclaggio e questa versione “in carne & ossa” di Dumbo.
Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni, ispirato liberamente e indegnamente al balletto che Tchaikovsky trasse da un racconto di E.T.A. Hoffmann, è soltanto un’operazione di propaganda politicamente corretta. Ambientato (assurdamente) a Londra, comincia con le pillole di saggezza di Morgan Freeman nello stesso ruolo che interpreta da mezzo secolo, prosegue con le imprese di uno soldatino schiaccianoci anch’egli nero, e culmina in un balletto con ballerina solista… di colore. Soli momenti affascinanti, la catabasi della protagonista, Clara (la bellissima Mackenzie Foy), nel tunnel che la porta ai “quattro regni” e la sua rissa con pagliacci in arrivo direttamente da Blade Runner; a parte ciò, la rediviva Keira Knightley con l’argento vivo addosso, Helen Mirren impaziente di passare a cose più serie e il perennemente imbambolato Matthew Macfayden si smarriscono in una produzione tanto demenziale da ispirare un film a un balletto di uno dei più grandi compositori di sempre, per sfruttarne soltanto un brano (la celeberrima Danza della Fata Confetto) – per il resto, i soliti cori enfatici.
Evento del Natale 2018, Il ritorno di Mary Poppins ha avuto molte più frecce al suo arco: innanzitutto, il fascino di un’attrice brava e carismatica quale Emily Blunt (in italiano assistita dalle ottime Domitilla D’Amico per i dialoghi e Serena Rossi per le canzoni), con la sua performance calibrata al millimetro e la sua eleganza. Molto del film, come direbbe il compianto Mario Marenco, è lì soltanto per allungare il brodo: il film diventa una sequenza di numeri musicali che si rincorrono fra loro, alcuni personaggi stanno lì a permettere all’attore in questione di fare la sua comparsata. Però, pur brillando della luce riflessa del film del 1964, resta un film molto bello.
Se la miracolosa (e inquietante) bambinaia ombrellomunita salva il bilancio dopo il disastroso insulto alla memoria di Tciaikovsky (non bastava Ken Russell?), il Dumbo di Burton riporta tutto in bilico.
Non perché non sia un bel film – senza essere una meraviglia (eccezion fatta per la divina Eva Green, che con la sua allure da strega bene intepreta l’adorabile trapezista Colette Marchant, ispirata all’attrice e ballerina il cui cognome finiva in -d), lo è.
Il film è preciso, affascinante, avvincente. Molto commovente, e un po’ crudele, perché anche se la bestiola è interamente realizzata in CGI, gli occhioni e il faccino spesso rigato dalle lacrime del prodigioso elefantino strazierebbero il cuore dello spettatore più insensibile, perché la scena del distacco forzato da mamma Jumbo fa piangere anche soltanto a ripensarci, e perché la micidiale canzone, già presente nel cartone animato, Bimbo mio (riproposta in italiano con la bellissima interpretazione di Elisa) è roba che al confronto Sergio Endrigo sembra Gino Bramieri. Una pecca è la sceneggiatura, che non ha battute significative e non conferisce dimensione ai personaggi, spettatori partecipi ma attoniti delle avventure del malinconico pachiderma.
Bello, ma è una dichiarazione di resa.
Lo Schiaccianoci comincia con i patemi di Mr. Stahlbaum, vedovo prematuro alle prese con i figli cui manca la bellissima, carissima, intelligentissima mamma.
Il ritorno di Mary Poppins presenta subito i problemi di Michael Banks, già vedovo e angosciato da come crescere i bimbi che rimpiangono la bellissima, adorata madre.
Dumbo narra le vicissitudini del capitano Farrier, cui come se non bastassero i traumi della trincea, l’amputazione d’un braccio, la mancanza di soldi e il doversi adattare a un nuovo lavoro, tocca dover far fronte all’incolmabile lacuna che per i due fastidiosissimi, tanto da fargli rimpiangere il fronte, figli è la mancanza della buonanima della genitrice.
Si aggiunga che in Dumbo Milly, la saccentissima figlia del reduce è cultrice di scienze, come Clara nello Schiaccianoci; e che entrambe hanno ereditato dalle madri una chiave dorata; e che sia Mary Poppins che Vandevere (il cattivo di Dumbo) hanno per motto che “l’impossibile è possibile”; e si avrà qualcosa più che un deja-vu – in tre film prodotti a pochi mesi di distanza dalla stessa mayor.
Questa non è una critica agli eredi (che farebbero comunque bene a indagare il loro rapporto con le figure materne) del creatore di Topolino e Paperino: la crisi che li ha portati a proporre un trittico fatto d’un adattamento (molto brutto), un sequel (molto bello) e un remake (carino) ha investito tutto il cinema mainstream. Uno dei film americani più belli degli ultimi anni è il recentissimo Blade Runner 2049: un tributo. Un progetto che ha appena visto un regista italiano, Luca Guadagnino, alla guida d’una produzione internazionale è il rifacimento di Suspiria (a proposito di Madri): uno stravolgimento dell’originale, ma comunque un omaggio costruito su di un’idea pre-esistente. Si producono telefilm ispirati a film (proprio in questi giorni è reclamizzato Hanna, da un bizzarro film d’azione con Saoirse Ronan super-agente segreta).
La mancanza di idee dilaga, anche quando i film di recente produzione sono originali. Si è già detto della standardizzazione con la quale i soliti nomi attanagliano da anni il cinema italiano: le solite vicende da salotto interpretate dalle solite facce che dicono le solite cose, con le solite locandine e i soliti titoli che citano canzoni (spesso più belle dei film in questione). La colpa in Italia sembra essere quella di un vuoto culturale, creato proprio dagli intellettuali più tronfi e autoreferenziali mai esistiti; a Hollywood a questo vuoto concorrono i peggiori vizi postmoderni – conformismo, intruppamento nei ranghi del politicamente corretto, mancanza di vicende interessanti. Mezzo secolo di “fantasia al potere”, parola d’ordine che i pifferai di Hamelin dell’industria dello spettacolo hanno imposto agli utili idioti fatti dilagare in piazze e università, ha creato proprio questo: un desolante vuoto d’immaginazione.
Il Dumbo originale fu realizzato a basso costo nel 1941 per rimediare a due precedenti disastri economici: Pinocchio e Fantasia. Fu un successo, soprattutto in patria, finché Pearl Harbor non spostò altrove l’attenzione degli USA. L’elefantino volante, eroe di tutti i bambini vittime di bullismo, insomma rimediò un problema di Fantasia. Nel film che lo omaggia, a Dumbo si chiede di risollevare le sorti di un circo devastato… forse non riporta la Disney al suo passato splendore (pur facendole fare soldi a palate, ribaltando subito il fiasco del primo giorno di proiezione), ma può essere un punto di ripartenza per questa Fantasia spenta. E resta una dichiarazione d’amore incondizionato alla Mamma, nell’epoca della genitorialità surrogata.