Un paio di sere prima delle elezioni statunitensi, il TG3 dedicava un servizio a un filmato diffuso in rete: Obama che fa canestro. Quanto è bravo Obama! Quanto è bello Obama! Quanto è giusto Obama! Primo presidente degli USA nero, il più carino, quello con l’immagine più pulita, il secondo Nobel più assurdo di sempre (Dario Fo resta irraggiungibile).
Poco o nulla conta lo sproposito di interventi bellici, la destabilizzazione del bacino mediterraneo, con la conseguente ondata migratoria che tuttora sta devastando (anche) l’Unione Europea. Obama e i suoi scagnozzi sono stati l’esatto contrario di quel buonismo messianico alle cui bugie i pressapochisti sotto-istruiti di mezzo mondo hanno continuato a credere, nonostante la tragica evidenza d’un disastro durato oltre gli otto anni dei suoi due mandati, per semplice arroganza: impossibile ammettere per lui d’aver ingannato, per il suo pubblico d’essere stato ingannato.
L’obamismo è la dimostrazione della fin troppo celebre frase di Goebbels: una menzogna ripetuta con insistenza diventa vera. O almeno: non si avvera, ma soltanto continuando a fingerla vera si regge il gioco della finzione.
Il buonismo è per sua natura dicotomico: ha l’ingenuità del manicheismo, non vede sfumature. Eppure, negli Stati Uniti si realizza, purtroppo, la frase cara ai qualunquisti: si sceglie tra il male minore.
Trump non è il bene: né con la B maiuscola, né con quella minuscola. Ma per quattro anni ha tenuto banco contro un Male che ha, appunto, la M maiuscola: dalla satanica Hillary Clinton a tutto ciò che le stava dietro – le peggiori devianze mondialiste. La sfida elettorale del 2016 ha visto un male minore vincere contro il Male, quello autentico, la tenebra totale. Che ha pazientemente (nemmeno tanto, data la continuità con la quale vampate di livore sono state sfogate in questi quattro anni) continuato a usare la propria arma preferita: la menzogna.
L’arma preferita del Partito Democratico, perché quella più potente. Trump è stato accusato, sin da prima della sua elezione (così come il guerrafondaio Obama è stato insignito del Nobel per la pace prima di cominciare i suoi otto anni di terrore), di essere quello che i suoi avversari sono.
Trump non è Gandalf, non ci somiglia nemmeno lontanamente. Che la Clinton sia Sauron, e Obama prima e Biden poi siano Saruman, è lampante. Non per nulla, hanno adunato un esercito di orchetti: fatti con lo stampino, anonimi, ottusamente obbedienti, profondamente stupidi e incattiviti.
Un aspetto tedioso dei quattro anni con Trump presidente degli USA, è stata la reiterazione di invettive. Sempre banali, sempre pavloviane, sempre identiche.
Meryl Streep che urla, paonazza, alla prima uscita pubblica dopo le elezioni. Giovanna Botteri che racconta balle alla RAI in collegamento dagli Stati Uniti. Studenti e studentesse analfabete che si aggrappano ai social network per dirsi allarmati dall’elezione d’un “guerrafondaio”. Teledipendenti di tutto il mondo occidentale che funestano pranzi di famiglia con l’argomentazione apodittica “Trump è un pazzo, il mondo è nelle mani di un pazzo”. Gli esempi sono decine, centinaia di migliaia… mi colpì, l’estate scorsa, guardando una partita del mondiale di calcio femminile (bruttissimo, ma il politicamente corretto imponeva di dire che le calciatrici partecipanti, che pur essendo le migliori al mondo offrivano a ogni partita uno spettacolo costernante, fossero ognuna più forte di Maradona, Pelé e Van Basten messi assieme), quando la telecronista e la commentatrice (in una sarabanda di episodi riportati approssimativamente e chiose dozzinali), vedendo inquadrata Megan Rapinoe, sguardo arrogante sotto capelli rosa, dissero: eh, la Rapinoe, che personaggio interessante. Perché? Aveva appena detto che in caso di vittoria del mondiale, avrebbe rifiutato di incontrare Trump al ritorno. Credevo si chiamasse “maleducazione e tracotanza”, scoprivo da una diretta televisiva della RAI che era un comportamento lodevole.
Il mondialismo ha ribaltato il mondo. Chi scatena guerre è un pacifista, chi non ne innesca nemmeno una è un guerrafondaio, chi obbedisce pedissequamente è “open-minded”, chi scatena cacce alle streghe è buonista e tollerante. Tutto in piena vista, tutto sotto la luce del sole: il fatto in sé, e la sua narrazione ribaltata. Ma tanto densa è la cortina fumogena, che il gioco continua a reggere.
Il duello tra Davide e Golia non vede sempre vincere Davide, anzi: la realtà delle cose contraddice l’esempio biblico più spesso di quanto non lo confermi. O meglio: Davide, meno possente di Golia, vince per la sua maggior astuzia. Il mondialismo è sia più possente dei suoi avversari, che più astuto.
La “fionda” più efficace di questa epoca è la comunicazione, e il mondialismo la usa. Siamo nell’epoca della cultura pop? Attrici e attori, cantanti, assi dello sport, giornalisti (o meglio: blogger e opinionisti vari – meno professionali, più ascoltati): tutti schierati contro l’ostacolo-Trump. Ho visto l’articolo d’una rivista di moda sulle scelte elettorali delle dive del momento (basato sui loro post di Instagram): era di fatto diviso tra quelle che invitavano a votare, e quelle che supportavano Biden. Un paio di giorni prima del voto, Lucy Liu reclamizzava una cyclette… con l’incitamento a votare Biden & Harris. Quando lo spoglio dei voti (palesemente truccato) ormai aveva confermato il successo di Biden, partiva il coro: tutti, ma proprio tutti, i personaggi dello spettacolo proclamavano la propria esultanza.
Una macchina del consenso così potente va affrontata con serietà. Una volta il dibattito elettorale era simmetrico (con le prime eccezioni: la santificazione, mendace, del democratico Kennedy; la demonizzazione, non così erronea, del repubblicano Nixon): ora è a senso unico. I distinguo sono spazzati via. L’attore Chris Pratt (una figura marginale dello star-system) è repubblicano? Si scatena la campagna d’odio.
Non solo nel mondo dello spettacolo (ma quanto è significativo, il silenzio imposto dai media USA alle lamentele di Trump per i brogli): Alexandra Ocasio-Ortez, dopo il Congresso eletta alla Camera dei rappresentanti, ha diramato l’appello: si segnalino, tra coloro che rivestono incarichi di qualsiasi importanza nel settore pubblico, i simpatizzanti repubblicani: così facciamo pulizia. Un’uscita vergognosa, un’iniziativa raccapricciante – non fosse che AOC è donna, ispanica, nata nel Bronx, democratica dell’ala di Sanders (quella che qualche deficiente pensa essere davvero una forma di sinistra: basterebbe una minima nozione di cosa sia, e cosa non sia, il socialismo, per capire che Sanders è un impostore liberale; ma i politicamente corretti non studiano, si danno ragione da soli): ha insomma il pedigree giusto perché qualsiasi suo rutto passi per il canto degli angeli. Guerre, bugie, delazione, intolleranza, diffamazione: il cattivismo dei buonisti è comunque bontà.
Dicevamo: per affrontare questo Moloch che ha sia la possenza di Golia che l’astuzia di Davide, bisogna saperci fare. La bestia mondialista è forte e furba. Cosa si oppone al mondialismo? Tanti movimenti che pure ne sono già un po’ schiavi. Ma due risposte possono essere: il sovranismo e il populismo – con tutte le loro difficoltà, imprecisioni, semplificazioni. Così Giorgia Meloni ha ritenuto doveroso chiosare la vittoria di Biden. Il sovranismo e il populismo non sono sconfitti, dice. Già dire “non siamo sconfitti” e “farete ancora i conti con noi” significa ammettere che si parte in svantaggio…
Ci vuole ben altro, molto più delle banalità della Meloni, o dell’insistenza con cui i suoi tifosi le ribadiscono (magari su Facebook, con i “una straordinaria/eccezionale/stratosferica/immensa Giorgia” di rito): serve una cultura politica di destra (anche populista, anche sovranista, ma qualcosa di meglio sarebbe gradito). Finché ci si entusiasma per i sondaggi che danno Fratelli d’Italia in continuo aumento nelle intenzioni di voto, ma non si costruisce una base, non si ottiene granché (anche perché tanto, al momento di votare non si parla). Nel movimento giovanile si espelle chi critica “Giorgia” (sarebbe anche ora di finirla con la confidenza del nome: la politica non è ricreazione), o si toglie il saluto a chi fa altrettanto col più che criticabile Attilio Fontana, perché si ragiona per paletti e schieramenti e di conseguenza ci si accontenta di quel che si ha (fosse anche un governatore inadeguato alla gestione della regione più popolata e complessa d’Italia) non si cresce. Lo scorso settembre, la concomitanza con le elezioni (e quindi col silenzio stampa) ha fatto annullare Atreju: nessuno si è accorto della mancanza, perché negli anni precedenti non ne usciva mai nulla (una proposta, un progetto, un’iniziativa… nulla).
Il mondialismo ha i colossi di internet e dello spettacolo, le testate di maggior successo, gli opinionisti più seguiti. Le sue alternative (siano il populismo, il sovranismo o qualcosa di meglio) devono almeno cominciare a creare qualcosa, perché i “gemelli del gol” Meloni & Salvini, checché ne dicano i sostenitori più scalmanati, non bastano. Se poi si preferisce accontentarsi di vittorie locali, fossero pure quelle dell’impolitico Toti e del costernante Fontana, si faccia pure: purché si eviti di gettare poi tutto come fece Capitan Papeete con la crisi di governo autolesionista di un anno e mezzo fa, e soprattutto si sia consapevoli che la lotta politica che una destra seria si deve proporre non è soltanto locale, nemmeno nazionale: è planetaria.