Per una bizzarra coincidenza, due episodi a distanza di pochissimi giorni hanno coinvolto la bandiera giapponese e le sue varianti: uno in Italia, uno in Giappone. Fin troppo ovvio dove si sia tenuto il comportamento più dignitoso. Bao Publishing è una casa editrice italiana di fumetti (a volte carini, come la serie horror americana “Rachel Rising”). Tra i suoi nomi di punta vi è niente meno che Zerocalcare, al secolo Michele Rech, fumettista romano in questi stessi giorni scontratosi col sindaco di L’Aquila, Pierluigi Biondi, contrario alla presenza del disegnatore e di Roberto Saviano al Festival Incontri. Zerocalcare era un disegnatore bravissimo, e un ottimo comico (alla lunga, risultava stucchevole l’insistito citazionismo da film e cartoni degli anni ’80 e ‘90); poi ha cominciato a disegnare per Internazionale, ed è diventato un monotematico predicatore di violenza antifascista: le sue vignette hanno cominciato a essere un putiferio di slogan macabri, facce truci, armi, minacce che quando andava bene erano di “pizze in faccia” (in romanesco: sberle) ai “fasci”. Forte di tutta questa paciosità, avrebbe poi dovuto far parte, con Michela Murgia e Marco Damilano, d’un terzetto di… “intellettuali” che arginassero l’odio dilagante in Italia.

Questo compromesso tra desiderio di violenza e tiritere politicamente corrette è andato in malora pochi giorni fa, quando Bao Publishing ha ritirato la copertina d’una antologia del nostro, intitolata “La scuola di pizze in faccia del professor Calcare”. L’autoritratto del nostro – gli inconfondibili sopracciglioni sotto i capelli cortissimi, maglietta nera teschiata dal fumetto “The Punisher” e fisico segaligno, con l’aggiunta di zigomo gonfio e occhiali stortati dalle percosse di un bullo – si stagliava (e qui lo fregava il succitato citazionismo, dato il riferimento ai film di “Karate Kid”) davanti a una Bandiera del Sole Nascente.
La bandiera giapponese ha più varianti. Quella civile è la più semplice: Hinomaru, il “Disco solare”, tondo rosso del diametro di 3/5 dell’altezza del vessillo, su sfondo bianco. Altrettanto nota è Jyurokujo-Kyokujitsu-ki, la “Bandiera del Sole Nascente”: il vessillo della Marina imperiale giapponese, col disco spostato verso l’asta e sedici raggi rossi che ne dipartono; il disco è invece accentrato nella versione dell’esercito di terra – trattasi allora della “Bandiera dell’Esercito imperiale giapponese”, in uso dal 1870 (passaggio dal periodo Edo alla restaurazione Meiji) alla sconfitta del 1945. La Bandiera del Sole Nascente con la prima versione citata (quella col disco spostato a sinistra), di uso più tardo (introdotta nel 1889 per la Marina, che l’ha sventolata fino alla sconfitta per mano americana), è tuttora in vigore: la Japan Maritime Self-Defence Force se ne pregia dal 1954. Accentrato o decentrato, il vessillo col sole a sedici raggi è collegato all’imperialismo giapponese, e gruppi di estrema destra tuttora lo inalberano, memori di una delle fotografie più belle e terribili mai scattate: quella del kamikaze che, nella Seconda Guerra Mondiale, si cinge la fronte con la fascia rituale, prima della sua ultima missione, nella quale avrà provato a eludere la contraerea per schiantarsi contro una nave militare statunitense.
Qui sta lo scandalo: qualche gendarme del politicamente corretto segnala alla Bao che quel vessillo è roba da fascisti, gli stessi che Zerocalcare minaccia di “pizze in faccia”. L’editore fumettaro rimedia subito: appronta una nuova copertina, senza il “fascistissimo” sole nascente nipponico sullo sfondo, e provvede a scusarsi, annunciando la presa di distanza con tanto di raffronto fra la “nazi edition” e quella ripulita, corretta, accettabile.
Niente di nuovo, le solite isterie di chi pretende l’ultima parola su cosa sia lecito e cosa no, cosa passi l’esame di correttezza politica e cosa no, cosa vada rigettato nell’inceneritore antifascista e cosa sia salvabile. Da decenni, la sinistrissima Feltrinelli ha in catalogo quasi tutte le opere (qualcuna, come il machissimo “Sole e acciaio”, le è sottratta da Guanda) di Yukio Mishima, che non era fascista ma all’immaginario dei “cuori neri” è ormai assimilato: nessun patema d’animo. Al pragmatismo sornione e arraffone del colosso editoriale radical-chic per antonomasia, Bao Publishing ha preferito una petalosa furia inquisitrice e intollerante alla Wu Ming.

Che succede invece dove si ha ben più diritto di sproloquiare sul Sole Nascente? In Giappone, il premier Abe annuncia: non basta quello che è l’attuale vessillo delle forze di terra, il sole a otto raggi con bordo dorato (versione tozza e sgraziata del Sole Nascente): il vessillo della Marina imperiale torni in auge. Si sono lamentati dalla Cina e dalla Corea del Sud: offensivo richiamo all’imperialismo nipponico degli anni ’30 e ’40, che ghermì le nostre terre. Hanno frignato anche alcune ONG locali, che rifiutano il pensiero d’un Giappone grande. Anti-nipponici esterni e interni hanno intimato: che quella bandiera non compaia alle Olimpiadi di Tokyo del 2020. Abe ha così decretato che la Bandiera del Sole Nascente splenda su esercito, marina, aviazione, edifici pubblici e Olimpiadi. Banzai Nippon: lunga vita al Giappone!
L’iniziativa di Abe non è nazionalista, né sovranista, né identitaria: è memoriale. Dai-Nippon Teikoku Rikugun, l’esercito imperiale, ha lasciato sul campo oltre due milioni e mezzo di ragazzi nella Seconda Guerra Mondiale: sconfitti, come i ragazzi di El Alamein, nonostante non mancassero affatto di valore. Il sacrificio di uomini capaci di immolarsi come facevano i kamikaze (quelli autentici, non quelli che massacrano civili inermi) non può essere cancellato da chi si scandalizza per una bandiera. Così come, in questi stessi giorni, le paturnie del Ministro degli Esteri croato non possono oscurare l’impresa dannunziana di Fiume.
Capita, incontrando ragazze e ragazzi della Generazione Erasmus, che qualcuno di loro si dica devoto alla cultura giapponese. Se gli si chiede cosa vi trovi d’affascinante, è improbabile che parli di shodo (l’arte della scrittura), ukiyo-e (la stampa con blocchi di legno), cerimonia del tè, giardini zen, samurai e ronin, teatro Noh e teatro Kabuki… parlerà di manga, anime (a volte, va detto, autentiche opere d’arte), band di plastic music e trasmissioni televisive oltre ogni limite del trash.
Quando gli Stati Uniti d’America sconfissero il Giappone, non si accontentarono di averli atterriti con due insulti all’umanità come Hiroshima e Nagasaki; cominciarono così a degradarli, e il Giappone nei decenni seguenti si è confermato un paese brillante (lo dimostrano i prodigi tecnologici, l’eccellenza negli studi e nel lavoro, i risultati economici), ma instupidito; i risultati sono quelle cretinate che tanto deliziano, e contagiano, i ragazzi occidentali anche con le loro derive più inquietanti (la diffusione degli “hentai”, i fumetti pornografici nei quali l’incesto, i rapporti sessuali ottenuti tramite ricatto e la pedofilia sono raffigurati come ovvietà; gli “hikikomori”, i ragazzi che rifiutano il confronto col mondo e si barricano in camera, anche armati, vivendo di videogiochi, fumetti, “junk-food” e masturbazione).

La decisione del presidente Abe di riportare in auge la bandiera imperiale non porterà il Giappone ai fasti di allora, quando dominava l’Oceano Pacifico. Non ce lo ha riportato il seppuku di Mishima… ma è, come l’estremo sacrificio del grande scrittore, un doppio segnale: di distacco dalla paccottiglia che attanaglia questa grande e gloriosa nazione; di nostalgia per un passato che se n’è andato, ma che non si può né si deve dimenticare.
La sbirraglia politicamente corretta sbraiti pure contro la Bandiera del Sole Nascente e l’impresa di Fiume: i servi del pensiero unico passeranno, la gloria nipponica e quella fiumana mai.