Odio profondamente il mio anno di nascita (1987). Sono nato a Milano, di giovedì e non nella domenica delle salme, proprio quando Milano stava diventando interessante, quando stava per succedervi di tutto (o forse, era già cominciato).
Da bambino tifavo per il Milan, ed ebbi coscienza soltanto dei suoi ultimi trionfi: potei avere contezza di Van Basten soltanto quando si ritirò. Non avevo nemmeno dieci mesi quando il Milan, nel “big match” del campionato 1988/89, schiantò per 4 a 1 il Napoli più forte di sempre. Come si vede dal filmato RAI che riassume la partita, ad assistere alla grande sfida, tra la nebbia e il gelo di San Siro nello stadio ancora scoperchiato c’era anche Bettino Craxi, milanese ma tifoso del Torino, sugli spalti per far compagnia al neo-presidente rossonero Berlusconi.
Era stato Presidente del Consiglio, Craxi, fino al marzo dell’anno precedente; così alla fine dell’aprile ‘87 nacqui sotto il governo Fanfani VI (“Rieccolo”, chiosò per una volta tanto a ragion veduta Montanelli), al quale avrebbe presto fatto seguito la non gloriosissima esperienza del democristiano Giovanni Goria, già ministro del Tesoro per Craxi e tuttora il solo premier italiano barbuto (gli fanno compagnia i baffi di D’Alema).
Quando Craxi si presentò per l’ultima volta in Parlamento – con un discorso al quale seguì il voto contrario all’autorizzazione a procedere nei suoi confronti – avevo compiuto sei anni da sei giorni. Il giorno dopo, una pletora d’incivili gli lanciò le monetine davanti all’hotel Raphael. Avevo sette anni e quasi un mese (detto così, sembra l’entità d’una condanna carceraria) quando si rifugiò in Tunisia.
Odio parlare in prima persona, ma sono ossessionato dalla memoria. Il che rende imbarazzante parlare dei ricordi da bambino: alcuni sono nitidi e precisi, ma i più sono vaghi, confusi, frammentari, spesso solo immagini, brevi suoni. Nel film “Hammamet”, appaiono dei numeri (finti, con in copertina Claudia Gerini nei panni di quella che si può identificare con Patrizia Caselli) di Sette, l’inserto settimanale del Corriere della Sera: negli anni ’90 era una bella rivista (da qualche anno a questa parte, mi disinfetto le dita dopo averla sfogliata). Le prime immagini che l’epopea di Mani Pulite mi evoca, sono gli articoli di Sette che sfogliavo da bambino; la mia pagina preferita era quella con le vignette di Stefano Disegni (il “Telescherno”, punta di diamante dell’estemporanea guida televisiva TVSette), che allora era in tandem con Massimo Caviglia. Mi ero perso la stagione di Cuore, quando Disegni e Caviglia collaboravano con Michele Serra: uno dei fortini più aggressivi (a suon di parolacce e doppi sensi: comunque più sofisticati del banalissimo Vernacoliere livornese) dell’anti-craxismo. Serra è diventato un corifeo bolso, arrogante e insipiente della “sinistra” iperliberista ed europeista; Disegni pubblica sul Fatto Quotidiano strisce in cui sostiene che il “recovery plan” dell’Unione Europea è più santo della manna dal cielo, Christine Lagarde una benefattrice e Giuseppe Conte un bravissimo premier; Caviglia, non pervenuto.
Quando ero ragazzino, quella gente – i Disegni, i Serra, i Barbacetto, i Travaglio, i Gomez – derideva i lacchè televisivi (Fede) e parlamentari (Bondi, Schifani) di Berlusconi; adesso, fanno gli scendiletto del governo Conte, dei ministri pentastellati e di Mattarella (che squallore L’Espresso: giornalismo d’assalto negli anni ’80, gli ossequi al Presidente della Repubblica da parte del vignettista Makkox oggi). C’è chi nasce incendiario e diventa pompiere; chi nasce anticraxiano, diventa grillino. Costruttori di un’Italia molto peggiore di quella che criticavano con vignette acide e articoli diffamatori. Poveretti.
Già quando ero bambino, Craxi mi colpì; non solo per l’insistenza con cui se ne parlava. Forse per quel cognome stranissimo, per l’Italia (un po’ come il mio, che però è straniero): credo il solo con la X. Non comprendevo la vicenda, ma l’esoticità delle foto di quel signore in sahariana mi incuriosiva. Più grandicello (ancora preadolescente), sviluppai una passione cretina per la comicità di Giorgio Forattini: il quale com’è noto trovò (su istigazione del suo padrone, Eugenio Scalfari) in “Benito di Tacco” il suo bersaglio preferito. Mi colpì la vignetta con cui salutò la morte di Craxi: non era per nulla ironica. Piuttosto, crudele.
Sono stato bambino nell’Italia rancorosa con Craxi quasi quanto lo è stata con Mussolini (con tanto di leggenda del tesoro nascosto da entrambi), con la stessa ottusità dogmatica. La certezza con la quale si era preteso che l’Italia repubblicana sarebbe stata migliore di quella del Ventennio era tornata, riadattata: il nuovo paradigma era che la Seconda Repubblica sarebbe stata migliore della Prima. Una promessa da marinai, una bugia, una cretinata.
Pensare agli anni ’90 mi rattrista. Era finito, o stava finendo, quel che poteva entusiasmarmi da bambino di provincia: la stagione d’oro del Milan, come quella dei cartoni animati. In televisione davano ancora Lupin, che mi è sempre stato antipatico; l’Uomo Tigre e Ken Shiro mi mettevano addosso un’angoscia atroce. I grandi registi e i grandi attori che vedevo in tv erano morti, o se ne sarebbero andati a breve (Mastroianni: 1996); i cantanti pure (De André: 1999). Il calcio era ancora bellissimo, soprattutto in Italia: lo sarebbe rimasto per pochissimo. Proprio il successo calcistico era il biglietto da visita con cui Berlusconi si presentava in politica, inaugurando una stagione che doveva sotterrare il ricordo di quella immediatamente precedente. Invece… no.
Sono stato bambino in un’Italia più qualunquista di quanto sia mai stata (e lo è sempre stata tantissimo). Sarà stato per reazione, se ho sviluppato una forte antipatia per le frasi sul “magna-magna” (“tanto sono tutti uguali”, “ognuno fa il suo interesse”, “tanto non cambia mai niente”, “Povera Italia”) e la mentalità che le accompagna: e lo sfacelo al quale, molto più recentemente, ha portato l’anti-politica mi fa pensare che questa risposta sia stata sana. Leggere la risposta di Craxi, nel 1980, a Berlinguer e compagni che nonostante lo stato di salute del Paese continuavano a predicare sventura, mi è sembrato una rivincita contro chi ripete i ritornelli sulla “Povera Italia” in cui “si tira a campare”. Leggerla adesso: perché in quella mentalità da perdente a tutti i costi (una vigliaccata, una scusa per non migliorare nulla) mi sono crogiolato sino a poco fa.
Da ignorantissimo adolescente brianzolo, compensai questo anti-qualunquismo con un moralismo spietato e un po’ becero. Agli esami di maturità presentai una tesina su Tangentopoli, davvero terrificante: non per i contenuti (che non c’erano), ma per la pochezza. Come epigrafe usai il testo della canzone di Franco Battiato, “Povera patria”: un’idiozia. Fui promosso perché i docenti non avevano la minima intenzione di vedere il mio volto butterato e ascoltare la mia balbuzie per un anno ancora.
Crebbi con l’antipatia per alcune fra le puttanate più generiche che si insegnano a scuola (il papato rinascimentale era corrotto perciò Lutero era un eroe, la Rivoluzione Francese è stata cosa buona e giusta, il ’68 ci ha liberati tutti…), ma mi restarono appiccicato addosso, dato che combaciava con questo moralismo straccione, due dogmi più nel particolare: che Berlinguer fosse un galantuomo morto ammazzandosi di fatica per la Causa (fine che Craxi non avrebbe mai fatto perché stava in esilio in stanze con i celebri rubinetti d’oro che nessuno ha mai visto); e che Tangentopoli sia stata la vittoria delle forze del bene sulla corruzione.
Rimpiango d’essere nato nel 1987, perché prima di compiere 34 anni assisto a una crisi di governo in cui un Renzi qualsiasi usa per pedine due Signor Nessuno quali Scalfarotto e la Bellanova: un anno e mezzo prima della mia nascita, Craxi doveva fronteggiare una crisi di governo minacciata da Giovanni Spadolini. Che non è stato un bel politico – tutt’altro; ma Craxi che fronteggia Spadolini e Visentini è una vicenda, Conte alle strette con la Bellanova e Scalfarotto tutt’altra cosa.
Ho paura che l’evento più interessante che vedrò al telegiornale nel 2021 resterà l’assalto degli zotici a Capitol Hill…
Lungi da me dire che gli Anni di Piombo siano stati una bella stagione: me lo impedisce il rispetto per chi (e sono stati troppo) li ha vissuti con sofferenza (non oso pensare cosa potessero provare i genitori dei ragazzi militanti), e per chi è stato ucciso. Se però dico che la politica degli anni Settanta e Ottanta sì che era avvincente, sì che era interessante, sì che era un grande fatto, non manco di riguardo a nessuno: la Grande Storia, ahinoi, è tale quando è tragica, se vivessimo nell’Eden non ci sarebbe nulla da scrivere.
Odio la mia data di nascita, perché Berlinguer era morto da tre anni e la crisi di Sigonella era trascorsa da un anno e mezzo; Almirante è morto quando avevo un anno e un mese, il Movimento Sociale è finito quando non ne avevo ancora otto. Ne ho compiuti trenta, quando premier era Paolo Gentiloni. Un aristocratico con trascorsi nell’estrema sinistra, finalmente un personaggio avvincente… invece no, già quando lasciò l’università vinse il titolo di moderato meno carismatico di tutto il centrosinistra italiano, al confronto Rutelli sembra il “Che” Guevara.
I più saggi potrebbero dirmi: non rinchiuderti nel passatismo, la politica del passato è roba da accademia. Potrei essere d’accordo. Poi Conte va in missione in Libia portandosi dietro il portavoce (di chi, di cosa, quando mai ha riferito nulla?) Casalino, che fa gaffe degne del più scialbo film dell’ispettore Clouseau. Scusate, mi rileggo la storia di Sigonella. Sono passati trentacinque anni? Appunto, anni: tempo. La mia giornata dura ventiquattro ore come la vostra, e ho lo svantaggio di essere molto lento (deficit d’attenzione, tendenza a divagare… questa, l’avrete notata). I Cinque Stelle sono l’oggi (sperando che arrivi presto il domani in cui saranno soltanto un imbarazzante ricordo), e nell’oggi si deve agire: ma non sono degni del mio tempo.
Su queste stesse pagine elogiai una divertentissima commedia di un paio d’anni fa, “Non ci resta che il crimine”: passando attraverso un varco temporale, tre amici si ritrovano nella Roma del luglio 1982: che significa la vittoria del “Mundial” calcistico, ma anche l’epopea della Banda della Magliana. La musica pop era più divertente, i gelati confezionati più buoni… però in città si soffocava, le automobili non avevano la marmitta catalitica. Ogni epoca ha i suoi problemi, il “razzismo” storiografico è una sciocchezza: ma alcune epoche sono più interessanti di altre (lo ha sostenuto anche Woody Allen con “Midnight In Paris”). Non cerco di sfuggire ai problemi dell’oggi, né sogno di vivere in un mondo senza guai e difficoltà: vigliaccata che lascio ai deficienti secondo cui il 2020 è stato “l’anno peggiore mai vissuto dall’umanità”.
Non chiedo di vivere una storia facile: imploro una storia interessante, con personaggi di rilievo. So com’era la “Milano da bere” solo tramite chi l’ha vissuta, e grazie a qualche film. Ci ho vissuto soltanto i primi due anni di vita: il che è come non esserci stato. Non so dire se va rimpianta o meno. Però so quali fossero le intelligenze radunate attorno al santuario garibaldino di viale Coni Zugna. Craxi ospitava in soggiorno Lucio Dalla, andava a teatro con Valentina Cortese, discuteva in televisione con Giorgio Strehler; la Milano di oggi ha i suoi (grandi) pregi, l’aria sta diventando respirabile, un pedone può percorrere più di cento metri senza dover sgranare il rosario… ma chi ne porta avanti la vita artistica e culturale? Le influencer, i trapper, la militanza tramite “flash-mob” lanciati su Facebook, le case editrici che piantonano le librerie (ormai ci sono soltanto le venerande Hoepli e Rizzoli – Dio le conservi, le nefande Feltrinelli e qualche Mondadori: una volta c’erano anche Messaggerie Musicali, Ricordi…) con presentazioni di “youtuber”: la spazzatura. L’anti-cultura, le banalità, il Nulla della “Storia fantastica” di Michael Ende, che avanza fagocitando e distruggendo.
In una milanesissima (gelo e nebbia: ovunque si guardasse, era tutto grigio) giornata dello scorso anno, il caporedattore mi chiese di guardare il film di Gianni Amelio, “Hammamet”, per scriverne. Lo vidi con un’amica (che si addormentò), la domenica dopo, in quello che una volta era il cine-teatro Odeon di via Santa Radegonda. Craxi ci tenne dei comizi, e il suo studio era a pochi metri da lì: piazza Duomo 19, accanto al Palazzo dei Giureconsulti. La notte guardai la pagina Facebook della Fondazione Craxi: vidi l’annuncio del viaggio in Tunisia per le commemorazioni del ventesimo anniversario dalla scomparsa, la settimana dopo. Mi risuonò in testa la colonna sonora di Maurice Jarre per il film di David Lean su “Lawrence d’Arabia”. La mattina di lunedì telefonai: c’era ancora un posto libero. All’alba di venerdì 17 partii.
Grazie a Craxi, ho visto per la prima volta l’Africa (si potrebbe aprire un dibattito sul fatto che la Tunisia sia parte del mondo arabo, prima che del continente nero).
La frase (usata e abusata da frotte di “influencer”) di Proust sul viaggio (che consiste non nel cercare terre nuove, ma nel tornare con occhi nuovi) mi si è rivelata autentica, o almeno spero sia andata così. Sta di fatto che il mio atteggiamento verso la politica, in quei tre giorni, è cambiato.
Furono giorni bellissimi, non soltanto perché Hammamet è degnissima della predilezione che le dedicano artisti, scrittori e politici, o perché al cielo plumbeo che accolse la comitiva della Fondazione Craxi, all’aeroporto Tunisi-Cartagine, di venerdì pomeriggio, seguirono due ventose giornate d’un azzurro splendente. Lo furono, almeno per me, perché furono una grande esperienza: molto più d’una gita, d’un viaggio intercontinentale, d’un pellegrinaggio (nemmeno troppo laico). Ottenni un’intervista con Stefania Craxi, figlia di Bettino: una santa, avrebbe dovuto buttarmi in mare dalla rambla (dove mi fu offerto un tè e fui accolto sul diwan: un po’ per culto dell’ospitalità, un po’ perché le stelle avevano deciso che le cose per me stavano girando bene), invece si fece filmare con me davanti alla medina. Forse, senza conoscermi, ha intuito che sono ossessionato dalla memoria, e ha trovato in me un possibile testimone: anche lei si è assunta il compito, doloroso e nobile, di tramandare.
Un uomo alto non è tale di per sé. Se tutti gli uomini fossero alti uguali, nessuno sarebbe considerato alto o basso: un uomo è considerato alto quando supera la statura media degli altri uomini. Craxi era un uomo alto, e con la sua corporatura imponente faceva sembrare minuto chiunque comparisse al suo fianco (tanto più se gli si accostava il “dottor sottile”, Giuliano Amato). Ma il gigantismo della sua figura è, allo stesso modo, tanto più evidente se si confronta la sua statura – in senso lato – con chi gli stava attorno, e con chi gli stava contro. Ancor più: se si raffronta la sua figura, con chi gli sta tuttora contro.
Si veda che fine ha fatto, la generazione di politici che ha inaugurato la stagione della Seconda Repubblica: dai colonnelli di Alleanza Nazionale (che allora stavano portando a conclusione quel che restava del Movimento Sociale), alle avanguardie leghiste, fino agli Occhetto e ai D’Alema, iniziatori loro, del processo di degenerazione della sinistra italiana, e non Craxi come tuttora fingono di poter pretendere. Chi ha istigato qualche decina di deficienti a buttargli in testa accendini e monetine ha poi fatto carriera politica: sono quelli che hanno devastato la Regione Lombardia, che hanno lasciato che camorra e ‘ndrangheta gettassero le loro teste di ponte a Milano e Varese, quelli che hanno trasformato il PCI in PDS, poi in Ulivo, poi in Margherita, poi nel Partito Democratico: questo sì, il nadir della sinistra italiana ed europea – non lo è, come millantano loro, il PSI craxiano e craxista. Quelli che hanno formato due maggioranze di governo con il Movimento Cinque Stelle, il partito più vergognoso del mondo occidentale.
Guardiamo per l’appunto Milano. Quali eccellenze politiche vi sono cresciute, dopo il 1992/’93/’94? La disastrosa giunta Fontana e il suo rimpasto? Il sottovuoto saccente e analfabeta della pseudo-sinistra “hipster” e iperliberista alla Civati? La finanza che regge il moccolo a Sala? I bocconiani che comprano bugie e droga dai radicali?
A proposito: pur con nessuna simpatia (anzi) per Giacinto “Marco” Pannella, va riconosciuto che sotto la sua guida i Radicali erano ben altra vicenda, rispetto all’imbroglio sorosiano con cui, per mercimonio, la Bonino (una che, salendo sulla nave Britannia, ha contribuito a fare di quanto conquistato a Sigonella un ricordo irripetibile) li ha trasformati nell’impresentabile +Europa. Con buona pace di chi è ancora tanto idiota da illudersi che dopo Tangentopoli la politica italiana sia migliorata.
Bettino Craxi non mi ha lasciato soltanto il ricordo (tanto più malinconico, in questi mesi di reclusione collettiva) d’un bellissimo (nonostante Tunisair) viaggio. Molto semplicemente (financo banalmente): le mie prospettive politiche si sono ampliate. Il bello di Craxi, vedendolo da destra, è che ci si può dichiarare “craxiani” senza dover stare a sinistra (il che, sia chiaro, non significa negare che Craxi fosse di sinistra: chi lo accusa d’aver snaturato la sinistra italiana, guarda un po’, si dice di sinistra pur essendo di fatto liberista…). Craxi non ha, come lo si accusa, portato i socialisti a destra: ma ha dimostrato che il suo riformismo era apprezzabile sia da chi fosse lontano dal comunismo, sia da chi lo fosse dal capitalismo – con buona pace di chi si è rintanato nelle terze posizioni “rossobrune” —, ma soprattutto di chi mai è uscito dallo schematismo del PCI (salvo uscirsene, come Berlinguer, con l’eurocomunismo: la versione stupida della socialdemocrazia) o che oggi si ammanta di emerite idiozie come la “decrescita felice” (si veda un po’ quale sinistra legge le boiate di Latouche), il riformismo di Craxi era molto meglio d’un “socialismo dal volto umano”: era un socialismo intelligente. Craxi mi ha insegnato che lo schematismo (in politica, come in tante altre cose) è un’idiozia: e se questo significa accusare d’ottusità Berlinguer, il problema se lo pigliano gli esegeti di Sant’Enrico da Sassari.
Mi ha offerto, Craxi, un punto di riferimento politico: il che è una risorsa preziosissima, per chi si interessi di politica ma non possa trovare riferimenti in quella di oggi, e nemmeno immobilizzarsi in culti stantii come l’almirantismo. Craxi è diventato per me quel che Garibaldi era per lui.
Gli sono grato, per l’unicità della sua figura e della sua vicenda: quel cognome “strano” era forse un segno premonitore. Craxi è stato una figura unica, nella politica e nella società italiana: per la sua personalità complessa, per la profondità della sua cultura, per la sua intelligenza, per la sua esagerazione. Non c’è più stato un personaggio, un carattere tale: nessuno col suo linguaggio sofisticato, con la sua oratoria da grande attore teatrale, con la sua presenza ciclopica, con la sua incapacità di essere banale, anche nella caduta: in esilio in Tunisia, protetto da miliziani palestinesi. Mi colpisce il sincronismo perfetto in cui è scattata la crisi di Sigonella: in tutta la storia italiana, doveva succedere proprio quando alla Presidenza del Consiglio c’era l’ultimo personaggio italiano in grado di essere interlocutore prediletto del mondo arabo e protagonista della scena mediterranea. La crisi di Sigonella può essere riletta come si guarda un film d’azione: e suo protagonista è stato il solo premier italiano che sia stato anche un avventuriero.
Lo hanno stroncato dei magistrati in cerca di visibilità, perché sapevano che in un film con lui, il posto da protagonista era già assegnato.
Un piccolo dono che Craxi mi ha lasciato sono le sue frasi: tanto apparentemente semplici, quanto potenti. Trovo poetica (molto più di tanti slogan autocompiaciuti di moda adesso, nell’epoca del narcisismo e della “resilienza”) “La mia vita è stata una corsa”. Devastante la promessa “Io parlo, e continuerò a parlare”: e si nota, oggi che siamo nell’era della censura politicamente corretta, quanto tale sfida fosse profetica.
C’è poi una terza frase, la più nota perché è l’epitaffio riportato sulla sua candida tomba nel bel cimitero cattolico sotto le mura della medina di Hammamet; la scorsa estate me la sono fatta tatuare su di un braccio. Per semplice che sia, dovrebbe far riflettere i giornalisti “giustizieri” che si dicono indipendenti e obbediscono alla maggioranza di governo del momento, oppure i ragazzini dei movimenti giovanili, dediti all’ossequio continuo e acritico di segretari nazionali, candidati sindaci e capi-rione:
“La mia libertà equivale alla mia vita”.