Heart of the sea/ Il cuore di Moby Dick, la follia dell’uomo

Hermann Melville nel suo capolavoro Moby Dick avvertiva che «per produrre un grande libro bisogna scegliere un grande argomento»: la storia del Pequod, del suo capitano Achab — eroe tragico e prometeico — e della grande balena bianca lo sono di certo.

Ma non si trattò di fantasia. Prima di scrivere il suo libro — un’opera densa, intricata, plurale — , lo scrittore volle rintracciare l’ultimo sopravvissuto del naufragio della baleniera Essex, partita nel 1820 da Nantucket e distrutta dalla furia di un enorme cetaceo, dotato di una forza prodigiosa e di un’intelligenza vendicativa, terribile. Affondata la nave, dopo un’epica caccia, rimasero solo i rottami, i naufraghi, l’orrore indicibile. Il mare con tutti i suoi segreti.
Il regista Ron Howard ha voluto raccontare la vicenda in «Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick» e ripercorrere il viaggio nella memoria intrapreso da Melville per interrogare l’ultimo testimone dell’Essex. Il risultato è un bel film (probabilmente “difficile”, malgrado la fotografia e gli effetti, per il grande pubblico) ma, allo stesso tempo, è un duplice omaggio a Melville e a John Houston, regista nel 1956 dell’inarrivabile pellicola con Gregory Peck, tratta dal romanzo sulla balena bianca. Non è casuale che Howards, richiamandosi al capolavoro, fissi le ragioni dell’immane lotta tra il “mostro” e i balenieri nell’avidità dell’uomo (“greed”, come dice il marinaio nella versione originale).

Il regista riprende la lezione di Melville che, sulla scia dei “reazionari” Poe e Cooper, trasformò l’avventura marina della ciurma dell’Essex, in un “romanzo allegorico” sull’America protestante e industriale (ricordate gli scritti di Max Weber?) , sulla democrazia di massa post Frankliniana e l’invisa ascesa liberale. Per lo scrittore, la baleniera divenne il paradigma del “nuovo mondo”:  una piccola cellula del grande sistema produttivo inserito in un sistema industriale che declamando la Bibbia (i rapaci armatori quaccheri del Pequod) mira unicamente al profitto. Ma Achab, come l’Ulisse dantesco, re Lear o il colonello Kurtz, esce dagli schemi, abbandona la campagna di pesca, dimentica gli ordini dei barbuti navarchi domestici e, infine,  si sbarazza degli strumenti nautici per oltrepassare per sempre, definitavamente, i “confini della ragione” e seguire, in libertà assoluta, la sua follia, la sua ossessione, il suo sogno: Moby Dick.

L’equipaggio soggiogato (e affascinato dal doblone d’oro — ancora l’avidità…— che il capitano ha inchiodato sull’albero maestro) seguirà Achab sino al disastro. La balena bianca, non più preda ma ormai misterioso «velo della divinità», non perdonerà. Le acque dell’Oceano si avvolgeranno sul Pequod a mo’ di sudario e solo il giovane Ismaele — come il vecchio marinaio di Coleridge — si salverà per raccontare agli uomini la tragedia del coraggioso Achab e dei suoi marinai cupidi e sventurati.

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