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Home Penna Pellicola Palco

San Babila, una storia di follie, amicizia e coraggio

di Marco Valle
4 Aprile 2016
in Penna Pellicola Palco
1
San Babila, una storia di follie, amicizia e coraggio
       


Piazza San Babila oggi per i milanesi è soltanto un punto d’incontro e di passaggio, uno slargo stradale. Per quelli della provincia e i turisti giapponesi, cinesi, arabi, russi etc. è poco più di un riferimento toponomastico e/o il crocevia dello shopping. Un nome, una tappa, un indirizzo. Nulla di più. Non hanno torto.

Milano è città intrigante, punteggiata da spazi deliziosi e segreti — spesso sconosciuti persino ai suoi stessi abitanti —, ma San Babila è e rimane semplicemente un incrocio di vie trafficate, con una chiesetta tardo romanica racchiusa tra palazzoni littori e edifici dei Sessanta (gli anni del boom). Tanto cemento armato, negozi, bar, una fontana che fa schifo (eredità del leghista Formentini), il parcheggio dei taxi e la metropolitana. In un angolo, un’antica colonna su cui s’innalza una scrofa, l’antico simbolo della Milano dei mercanti, il simbolo più autentico di una metropoli spesso cinica e ingorda.

San Babila è non piazza Duomo, non è piazza Sant’Alessandro (poesia barocca), o Belgioso o San Fedele; non è nemmeno Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio e San Sepolcro (dove tutto iniziò). San Babila non ha l’imponenza fascista di piazza della Repubblica (l’ex piazza Fiume) o la poesia medievale di piazza dei Mercanti e nemmeno la grazia umbertina di Cairoli e piazza Castello. San Babila è poca roba. Eppure questo slargo stradale, questo intreccio d’asfalto, questo “non luogo” è stato (incredibilmente) l’epicentro, il teatro e lo scenario di una vicenda crudele di un tempo sbagliato. Cattivo.

Torniano all’indietro, ai Sessanta e Settanta dello scorso secolo. Per una serie di coincidenze irripetibili, la piazza divenne, per uno spezzone minoritario quanto stravagante della gioventù milanese, “il mondo”: San Babila fu allora agorà, palcoscenico, armeria e trincea. Tra le colonne grigie e le vetrine colorate, per una manciata d’anni (più o meno tra 1968 e il 1974), prese forma e sostanza un piccolo universo d’amicizie, ardore, amori, follie: i sanbabilini.

Una storia pesante e dura, sempre travisata, spesso misconosciuta. Gocce di poesia, tanto coraggio, molti sbagli e nessuna speranza. Una storia quasi impossibile da scrivere. Un rebus. Un corto circuito culturale.

Dopo più di quarant’anni, due protagonisti centrali di quell’esperienza, Maurizio Murelli e Cesare Ferri, hanno deciso finalmente di raccontarsi, di narrare le loro avventure giovanili (piccole vittorie e grandi sconfitte, amori effimeri e amicizie salde), rivelando al tempo stesso i loro incubi — la giovinezza perduta, i camerati caduti, le famiglie lacerate, la puzza delle celle, i tradimenti, e poi lo spaesamento della libertà ritrovata — con cui convivono da decenni. Lo hanno fatto in modi e in stili diversi, ma con sentimenti forti e onesti, con scrittura limpida e sicura. Senza sconti, senza infigimenti, senza narcisismi. Con dignità. Nel segno della verità. La scrittura, a volte, è terapeutica.

Sul denso e importante romanzo di Maurizio (Indian Summer, edizioni AGA), torneremo prestissimo. Non a caso. Per capire e comprendere pienamente il lavoro murelliano è necessario, a nostro avviso, leggere con occhi acuti San Babila, la nostra trincea di Cesare Ferri. Un libro crudo, apparentemente facile e scorrevole, ma in realtà — il lettore avvertito lo comprende da subito — complesso e problematico.

Sullo sfondo di una città impazzita e di un paese sull’orlo di una guerra civile, l’autore racconta i percorsi esistenziali e politici di una manciata di ragazzi che decisero di trasformare la loro rivolta generazionale — il ’68 fu un fenomeno trasversale e potente che scosse in profondità l’intera società italiana — in un momento di opposizione totale, contrapponendosi non solo ai partiti governativi, alle regole del “sistema” ma anche e soprattutto alla deriva neo-marxista che tutto sembrava inghiottire e travolgere.

Una scelta minoritaria e, nell’immediato, assolutamente perdente. Nei nuovi assetti dell’Italia progressista e post-industriale, egualitarista e desovranizzata, non vi era posto per romantici sognatori di un improbabile “ordine nuovo”, non erano previsti giovani patrioti anticonformisti. Per i poteri forti, quelli veri, il “grande incendio” era un fenomeno passaggero e fastidioso ma, alla prova dei fatti, sinergico alla trasformazione neocapitalistica del paese, alla sua definitiva secolarizzazione e massificazione culturale. Presto o tardi gli incendiari maoisti, trotskisti, stalinisti e compagnia cantante sarebbero — come accadde — diventati pompieri e poi giornalisti, giudici, deputati, imprenditori, notai. Eugène Ionesco, vedendo nel “mai ’68″sfilare sui boulevards i figli della borghesia parigina,  aveva previsto ogni cosa….

Tutto questo i ragazzi di corso Monforte — la sede della Giovane Italia — non lo potevano sapere. Spiazzati da un partito contraddittorio e ondivago — il MSI sempre indeciso tra “ordine” e alternativa, tra entrismo e nostalgia — e incalzati dal successo della contestazione gauchista, i giovani militanti decisero di resistere e contrattaccare. Una battaglia presto disperata — i rapporti di forza erano assolutamente sfavorevoli — e solitaria. Il partito, in una delle sue innumerevoli giravolte, chiuse Monforte, rinunciando così all’agibilità politica nel centro cittadino, e abbandonando, almeno ufficialmente, gli irriducibili alla loro sorte. Un errore clamoroso. Perso il “covo”, i più decisi scelsero di restare nel cuore di Milano, trasformandolo in una trincea. San Babila, appunto.

Per Ferri e i suoi amici fu l’inizio di un “voyage au bout de la nuit”, ritmato da scontri sempre più violenti, feriti, spari, bombe e, poi, morti. Con elegante crudezza, lo scrittore racconta quell’anabasi impossibile, tratteggiando una Milano disperata e crudele, alternando atmosfere crepuscolari — così simili alle periferie di Sironi — a paesaggi umani che rimandano ai film di Sam Peckinpah. Come colonna sonora le canzoni di Fabrizio De Andrè, il cantante più amato dai sanbabilini.

Presto la situazione s’incupì, i legami umani si saldarono e la determinazione crebbe. In solitudine, come “fiumani” senza d’Annunzio, come “ronin” erranti, come “soldati perduti”, il piccolo gruppo — non più di una cinquantina di militanti e qualche centinaio di simpatizzanti — continuò cocciutamente a lottare in nome di una certa immagine del mondo, per quelle “idee senza parole” che, come avverte Oswald Spengler, “scorrono nel sangue”.

Certo, vi era un richiamo (contradditorio o/e sentimentale) al fascismo, talvolta si guardava verso un partito sempre più distante (e dopo la vergogna del 12 aprile 1973, ingrato e ostile), ma ciò che in piazza (la trincea)  contava sul serio, i sentimenti che univano e motivavano, erano l’amicizia, il cameratismo, l’orgoglio dei “pochi, felici pochi”.

Al netto degli infiltrati (una tassa obbligata per ogni spazio non conforme), dei carabinieri “camerati”, dei soliti cattivi maestri scappati “un attimo prima” in Spagna, in Grecia o chissà dove, dei sociopatici e dei matti veri, nella ventura di San Babila non vi fu spazio — ancora De Andrè — per gli «intellettuali d’oggi, per gli idioti di domani… per i profeti molto acrobati della rivoluzione». I ragazzi decisero di fare da soli. Senza lezioni. Senza chiedere sconti o pietà ad alcuno. Il disastro era inevitabile ma limpido. Pulito come sbarre del carcere, come le tombe.

L’esperienza  — quella reale, non quella immaginaria di millantatori e provocatori — si chiuse nel 1974 con l’arresto, l’esilio o la morte (Giancarlo Esposti, Gianni Nardi) dei principali esponenti. In quella primavera, con macabra precisione, scattò la grande trappola: a Brescia e a Bologna (il treno Italicus) due terribili esplosioni massacrarono decine di persone, e subito la magistratura, i carabinieri, i servizi segreti offrirono al pubblico i “colpevoli fascisti”, i mostri di San Babila. Una provocazione raffinata e complessa. Ferri non si rassegnò, seppur lontano scelse di tornare per sbugiardare gli inquirenti. Una scelta coraggiosa che pagò con una lunga detenzione, inquietanti tentativi d’assassinio e, infine, un’assoluzione piena sulla strage di Brescia.

Ne valeva la pena? Osservando, prima di costituirsi, la piazza ormai vuota, l’autore rifletteva «Se avessi fatto scelte diverse, se la mia stessa vita fosse stata diversa, non starei per andare in carcere, eppure non mi pento di niente, perché quello che ho fatto, quello che abbiamo fatto, è stato difendere un’idea. Ci siamo riusciti? Credo proprio di sì».

 

Cesare Ferri

SAN BABILA

La nostra trincea

Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2015

Ppgg, 286, euro 25.00

Tags: Cesare FerriEdizioni Settimo SigilloFabrizio de AndrèMaurizio MurelliMilanoMSISan Babila
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