“Avete notato come abbiamo rispettato l’orario?” così, da buon burocrate zelante, il pubblico ministero Marcel Reboul, dopo avere consultato il suo orologio da tasca, aveva commentato quanto era appena accaduto sotto i suoi occhi al Forte di Montrouge, una caserma alla periferia di Parigi poco oltre la Porte d’Orleans.
Pochi minuti prima un uomo era stato fucilato in uno spiazzo erboso ai piedi di un terrapieno.
Legato al palo da due soldati molto più emozionati di lui, pallido in volto ma sereno, il condannato aveva ascoltato impassibile la lettura del provvedimento col quale gli veniva negata la grazia.
Poi, dopo avere rifiutato la benda, aveva incoraggiato il plotone di esecuzione e gridato “Vive la France, quand même!”.
Pochi istanti dopo la scarica lo aveva colpito sbalzando verso l’alto il suo corpo senza riuscire ad ucciderlo.
Un sottufficiale aveva, perciò, provveduto al colpo di grazia sparandogli alla tempia mentre ancora si contorceva legato al palo.
Dopo il colpo il corpo, che era avvolto in un elegante cappotto blu scuro, si era afflosciato dolcemente sull’erba e non si era più mosso.
Erano le 9.38 del 6 febbraio 1945.
Finiva così, a 36 anni, la breve vita di Robert Brasillach, uno dei più brillanti e talentuosi intellettuali francesi del periodo tra le due guerre.
Laureatosi nel 1928 alla prestigiosa École Normale Supérieure, giornalista e commentatore politico, scrittore e romanziere, critico letterario e cinematografico, saggista studioso di letteratura, non aveva tardato ad imporsi come uno dei migliori talenti della cultura Francese degli anni Trenta.
Disgustato, come molti della sua generazione, dallo sfascio etico e morale, prima ancora che politico, della Terza Repubblica e convinto della necessità di reagire alla evidente decadenza non solo della Francia ma dell’Europa intera divenne un intellettuale militante, affascinato dal Fascismo europeo che considerava l’unico movimento politico portatore di valori nuovi in grado di determinare in Europa un vera rivoluzione sociale e culturale e di evitarne così la rovina.
Scriveva per la Revue Française, per la pagina letteraria dell’Action Française di Charles Maurras e, soprattutto, per Je suis partout, settimanale di successo la cui redazione, che Brasillach dirigerà dal 1937 al 1943, fu per molto tempo un importante laboratorio politico-culturale della destra francese animato da un gruppo di giovani e brillanti intellettuali anticonformisti: oltre a Brasillach, Pierre Gaxotte, Lucien Rebatet, Pierre-Antoine Cousteau, Claude Jeantet, Maurice Bardèche (suo amico fraterno sin dai tempi del liceo, sposò sua sorella Suzanne e fu, nel dopoguerra, custode della sua memoria), Pierre Halévy, Pierre Drieu La Rochelle.
Dopo la disfatta del 1940, considerata inevitabile conseguenza del degrado generato in Francia da un sistema politico inetto e corrotto, Brasillach si schierò senza esitazioni, come la stragrande maggioranza dei Francesi in quel momento, con il Maresciallo Pètain.
Rientrato a Parigi dalla prigionia all’inizio del 1941, riunì il gruppo di Je suis partout che riprese subito le pubblicazioni.
“Noi siamo per la collaborazione nella dignità. Francesi profondamente colpiti dalla disfatta, francesi addolorati, francesi che non sanno sopportare le gravi conseguenze, noi restiamo francesi che intendono vedere chiaro, salvare l’essenziale; è per questo che vogliamo entrare nell’ordine europeo” scriveva nell’editoriale del 21 marzo 1941.
Si considerava un combattente politico e per questo non esitò a schierare sé stesso e il giornale su posizioni anche molto estreme ed intransigenti, ritenendo di dare così il suo contributo, personale ed intellettuale, ad una lotta che riteneva decisiva.
Il giornale ottenne in breve una grande popolarità, raggiungendo nel 1942 una tiratura di oltre 250.000 copie.
Nell’estate del 1943, però, a causa di serie divergenze politiche con le autorità tedesche di occupazione, che mal tolleravano la sua indipendenza di giudizio, fu rimosso dall’incarico di caporedattore; il 27 agosto pubblicò il suo ultimo articolo e lasciò definitivamente Je suis partout.
Quando il 25 agosto 1944 i Tedeschi evacuarono Parigi Brasillach non volle mettersi in salvo a Sigmaringen (il castello della trilogia di Cèline), dove si erano rifugiati quasi tutti i personaggi di spicco di Vichy, preferendo nascondersi in un appartamento del Quartiere Latino.
La latitanza fu breve: a metà settembre la polizia del governo provvisorio gollista per indurlo a consegnarsi arrestò sua madre, la sorella Suzanne e il cognato Maurice Bardèche che vennero sottoposti ad una carcerazione durissima.
Per evitare all’anziana madre ulteriori sofferenze Brasillach si costituì subito e fu rinchiuso nella prigione di Frèsnes, dove scriverà alcune delle sue pagine più significative.
Imputato di “intelligenza col nemico”, ai sensi dell’art. 75 del Codice Penale allora in vigore, per il contenuto dei suoi articoli pubblicati su Je suis partout, comparve di fronte alla Corte d’Assise Straordinaria il 19 gennaio 1945.
Sia il presidente della Corte Maurice Vidal che il pubblico ministero Marcel Reboul avevano, sino a poco tempo prima, servito il regime di Vichy; entrambi avevano prestato, senza problemi, il giuramento di fedeltà al Maresciallo Pètain previsto dalla legge costituzionale n. 9 del 14 agosto 1941.
Il primo aveva presieduto una sezione del Tribunale Penale specializzata in reati connessi al mercato nero; il secondo era stato pubblico ministero al Tribunale Speciale della Senna dove aveva spesso sostenuto la pubblica accusa contro membri della resistenza imputati di reati politici eguali e contrari a quello di cui ora accusava Robert Brasillach.
La difesa era stata assunta invece da Jacques Isorni, figlio di un pittore italiano, istrionico principe del foro e futuro difensore del Maresciallo Pètain nonché padrone di casa del pubblico ministero Reboul, che frequentava e col quale si era scontrato varie volte al Tribunale Speciale della Senna difendendo, però, i resistenti.
I quattro giurati popolari, alcuni dei quali coinvolti nella resistenza e tutti provenienti dalla banlieue, erano un operaio, un elettricista, un tipografo ed un giovane ingegnere.
Il processo iniziò alle 13 con la requisitoria di Reboul il quale si limitò ad elencare freddamente le accuse, ricorrendo alla lettura di alcuni articoli comparsi su Je suis partout considerati la prova del “crimine”.
L’arringa di Isorni, invece, fu in parte una dissertazione letteraria, tesa a dimostrare il valore morale ed intellettuale dell’imputato, in parte una riflessione sui problemi etici della libertà di espressione.
Argomenti, in realtà, fuori dalla portata della giuria popolare e che escludevano, volutamente, ogni ipotesi pentimento o, comunque, qualsiasi ripensamento.
Linea di condotta pienamente approvata e condivisa da Brasillach: “Non rinnego nulla. Pensavo che i miei scritti fossero prima di tutto utili al mio Paese” rispose al presidente Vidal che lo interrogava a proposito degli articoli incriminati.
Alle 18,35 il dibattimento era già finito e alle 19, dopo solo venti minuti di camera di consiglio, il presidente leggeva il verdetto, raggiunto a maggioranza: condanna a morte mediante fucilazione e confisca di tutti i beni.
“E’un un’infamia”, gridò qualcuno dal pubblico. “E’un onore”, replicò calmo Brasillach.
Il verdetto suscitò un enorme scalpore; quella che nelle intenzioni dell’autorità gollista doveva essere solo una condanna esemplare venne percepita invece, e tale resterà per sempre, come un simbolo di ingiustizia nei confronti di un uomo di cultura colpevole solo di avere espresso le sue idee, per quanto “sbagliate”.
I più autorevoli esponenti del mondo culturale ed accademico francese di ogni schieramento (inclusi molti resistenti e alcuni suoi nemici politici) chiesero al generale De Gaulle la grazia per Brasillach con una petizione firmata, tra gli altri, da Paul Valéry, Paul Claudel, François Mauriac, Albert Camus, Marcel Aymé, Jean Paulhan, Jean Cocteau, Colette, Jean Anouilh, Jean-Louis Barrault, Thierry Maulnier.
(Solo Sartre e la de Beauvoir ritennero giusta la condanna e si rifiutarono di firmare.)
Tutto inutile: senza fare una piega il Generale negò seccamente qualsiasi atto di clemenza.
Brasillach restò rinchiuso a Fresnes fino alla mattina del 6 febbraio, continuando a scrivere fino all’ultimo.
Quel giorno, alle 9 in punto, gli fu comunicato in cella il rigetto della grazia; restava solo il tempo per una rapida confessione e per consegnare a Isorni il manoscritto delle sue ultime poesie (saranno conosciute come “I Poemi di Fresnes”) e le lettere di addio per la famiglia; poi fu caricato sul furgone nero che lo portò all’appuntamento con il plotone di esecuzione.
L’ultimo pensiero fu per i morti del 6 febbraio 1934, 15 militanti di destra uccisi a Parigi dalla polizia durante una manifestazione contro il governo: “Oggi è il 6 febbraio, mi penserete e penserete anche agli altri che sono morti, lo stesso giorno, undici anni fa” disse all’avvocato Isorni abbracciandolo prima di avviarsi, senza aggiungere altro, verso il palo della fucilazione. “Con undici anni di ritardo sarò dunque dei vostri?” aveva scritto la sera prima nella sua ultima poesia.
Nonostante le censure, l’oblio forzato e persino la denigrazione strumentale (ex multis: “Brasillach non è stato un grande scrittore”, Riccardo De Benedetti nella recente postfazione di “Memorandum per la mia autodifesa”) che hanno accompagnato nel dopoguerra la sua figura, il caso Brasillach non si è mai chiuso ed ha continuato a pesare sulla coscienza della Francia.
Come scrisse Albert Camus: “Se Brasillach fosse ancora tra noi avremmo potuto giudicarlo. Invece ora è lui a giudicare noi.”
Quale fu, dunque, il vero motivo dell’uccisione di Robert Brasillach?
L’accusa di “intelligenza con il nemico” non è, ovviamente, credibile e non può reggere di fronte all’evidenza storica.
Basta osservare che Robert Brasillach fu fucilato per qualche articolo di giornale mentre molti altri, ben più colpevoli di lui, non solo restarono impuniti ma addirittura poterono costruirsi luminose e ben retribuite carriere, pubbliche e private, nella Francia libera e democratica.
Maurice Papon, ad esempio, nel 1942 segretario generale della prefettura della Gironda, che organizzò ed eseguì, per conto della Gestapo, la deportazione di 1.600 ebrei francesi.
Passato con la resistenza dopo lo sbarco in Normandia, comparve accanto a De Gaulle il giorno della liberazione di Bordeaux, fu per molti anni Prefetto di Polizia di Parigi (si deve a lui la sanguinosa repressione delle manifestazioni algerine del 17 ottobre 1961), venne eletto deputato all’Assemblée Nationale, decorato con la Legion d’Onore e addirittura nominato ministro dei governi di Raimond Barre.
Dopo molte difficoltà sarà processato e condannato solo nel 1997.
O Renè Bousquet, capo della polizia di Vichy dal 18 aprile 1942 al 31 dicembre 1943, che il 16 e 17 luglio del 1942 organizzò, senza che i tedeschi lo avessero chiesto, la terribile “Rafle du Vel’ d’Hiv”, la retata del Velodromo d’Inverno, ovvero il rastrellamento di massa degli Ebrei di Parigi.
Interamente eseguito dalla polizia francese, che si servì addirittura dei bus del trasporto pubblico, porto all’arresto di più di 13.000 persone, tutte deportate ad Auschwitz con treni della SNCF condotti da ferrovieri francesi.
Dopo la guerra Bousquet subì, senza conseguenze, un blando procedimento, lasciò la pubblica amministrazione e divenne un alto dirigente della Banque de l’Indochine, posizione privilegiata che gli consentì di ottenere favori e protezioni politiche ad altissimo livello.
Si dice abbia addirittura finanziato alcune campagne elettorali di François Mitterand, altro insospettabile reduce di Vichy il quale, allora fervente ammiratore di Pètain, era divenuto nel 1942 un solerte ed affidabile funzionario governativo, ben introdotto negli ambienti vicini Maresciallo che gli garantirono una rapida e proficua carriera, tanto da ricevere, nel 1943, la massima onorificenza civile del regime il cui distintivo (la francisque, l’ascia gallica divenuta simbolo dello stato) restò in bella mostra sul bavero della sua giacca fino al passaggio alla resistenza nel 1944.
Bousquet, che forse aveva già avuto rapporti con Mitterand a Vichy, fu assassinato l’8 giugno 1993 alla vigilia del processo che, anche in questo caso con grandi difficoltà, era stato finalmente istruito a suo carico.
Il motivo di questa apparente schizofrenia ha un nome: raison d’Etat, la ragione di stato, un concetto che per i Francesi (a differenza degli Italiani) ha sempre avuto un grandissimo valore.
Più che il plotone di esecuzione è stata la raison d’Etat, disinvoltamente applicata da De Gaulle, ad uccidere Robert Brasillach.
Quando, in un famoso discorso radiofonico del settembre 1944, il Generale aveva promesso di fare giustizia di quel “pugno di miserabili e di indegni” che aveva collaborato con l’occupante sapeva perfettamente che la realtà era molto diversa da come la stava dipingendo: l’adesione (convinta) a Vichy aveva coinvolto ben più di un “poignée de misérabiles” e una vera epurazione sarebbe stata impossibile, oltre che molto pericolosa.
Nel 1940 quel che restava delle forze armate, i prefetti, la Polizia e la Gendarmeria, l’amministrazione, la magistratura, l’Armata Coloniale, vale a dire i pilastri della Rèpublique, e la stragrande maggioranza di una popolazione umiliata e indignata avevano aderito in massa all’appello del vecchio ed allora amatissimo Maresciallo, l’eroe nazionale nuovamente chiamato a salvare la patria, o quel che ne restava, dopo averlo già fatto nel 1917.
L’invito di De Gaulle alla resistenza, trasmesso da Radio Londra il 18 giugno 1940, era passato, invece, quasi inosservato, come era inevitabile: il Generale era in quel momento un semi sconosciuto ufficiale dello stato maggiore, promosso generale di brigata da poche settimane e membro dello screditato Governo Reynaud, ritenuto responsabile del disastro.
Solo l’andamento della guerra cambierà progressivamente la situazione in un crescendo di doppiezza, connivenze, ambiguità, voltafaccia e tradimenti a volte clamorosi.
De Gaulle sapeva benissimo che per ricostruire il paese e mantenere integra la struttura dello Stato avrebbe avuto bisogno di tutti senza poter andare troppo per il sottile: non poteva permettersi di fare distinzioni tra chi, la stragrande maggioranza, aveva in qualche modo “collaborato” e chi no.
Meglio creare una “narrazione” (come si dice oggi) che scaricasse su di un “pugno di miserabili” le responsabilità collettive ed innominabili di tutti.
Su tutto il resto sarebbe bastato calare una comoda e pesante cortina di silenzio e di interessata connivenza.
Servivano, quindi, pochi colpevoli esemplari degni di una punizione altrettanto esemplare e sufficienti a legittimare il potere e la credibilità della nuova autorità; Brasillach era un candidato perfetto per la sua grande notorietà, per non aver mai attenuato le sue posizioni e, soprattutto, per non averle mai cambiate.
“Perché avremmo dovuto fucilare solo i poveracci?” dirà nel 1963 De Gaulle ad Alain Peyrefitte a proposito di Brasillach. Aggiungendo “le parole di un intellettuale sono frecce, le sue frasi sono proiettili! L’intellettuale ha il potere di plasmare l’opinione pubblica. Non può godere di questo privilegio e rifiutarne gli inconvenienti. Quando giunge l’ora della giustizia deve pagare!”.
Già, ma di quale giustizia parlava il generale?
Philippe Bilger, l’alto magistrato che occupa oggi la poltrona di procuratore generale che fu di Marcel Reboul, in un interessante saggio recentemente dedicato al caso Brasillach (“20 minutes pour la mort, Robert Brasillach: le procès expédié”) ha definito il processo “indegno, un esempio disonorevole di giustizia sommaria” frutto non della ragione di stato ma della irragionevolezza dello stato (“déraison d’Etat”) precisando che “nulla mai arriverà a giustificare questa fredda decisione […] di un generale”.
Per Alice Kaplan, figlia del pubblico ministero americano al processo di Norimberga e docente di letteratura alla Duke University, autrice di un documentatissimo saggio sull’argomento (“The Collaborator: The Trial and Execution of Robert Brasillach”) “si trattò di un verdetto esagerato e ingiusto […] il processo era simbolico […] il governo compì un’azione irrevocabile, un’esecuzione che consolidò il potere di De Gaulle”.
Non è certo un caso se qualche mese dopo, una volta sicuro di avere consolidato il suo potere, De Gaulle non abbia avuto problemi a concedere a Lucien Rebatet, a Henri Béraud, a tutto il gruppo di Je suis partout e a molti altri condannati a morte la grazia che aveva negato a Brasillach.