Quello che sta avvenendo a Roma in queste settimane, ed in parte anche a Napoli, e tenendo conto delle scelte fatte a Milano, ripropone da parte dello scrivente l’interrogativo sull’opportunità di mantenere il sistema dell’elezione diretta del sindaco anche per le metropoli. Vi sono al riguardo molte considerazioni da fare.
La prima considerazione è generale, e consiste nel fatto che l’elezione diretta era stata proposta a suo tempo dal Movimento Sociale Italiano, e poi stabilita con legge del 1992, partendo dal presupposto che nelle città le persone veramente competenti, impegnate ed oneste erano conosciute dai cittadini e quindi avrebbero potuto amministrare la città al di là degli interessi divergenti dei partiti. Se questo è vero, e non sempre è vero, vale solo per le città piccole e medie, diciamo non superiori a 100.000 abitanti (che poi sono la stragrande maggioranza di quelle italiane): per le altre, quelle con ampiezze territoriali e di popolazione maggiori fino alle metropoli, questa concezione ci sembra impossibile da verificarsi. Infatti, non solo i candidati a sindaco non sono conosciuti personalmente o per fama da tutti gli abitanti, ma gli stessi candidati non conoscono neanche bene tutta la metropoli, con i suoi problemi, con le sue borgate sempre in aumento, con le condizioni economiche dell’amministrazione e delle aziende che essa controlla. Vorremmo sapere ad esempio quante volte gli attuali candidati, od i passati sindaci, hanno preso un autobus, la metropolitana, hanno visitato le borgate più lontane e più isolate, hanno attraversato strade dissestate o colme d’immondizia non raccolta!
Da qui nasce la seconda considerazione. Per farsi conoscere, il candidato sindaco od è imposto da qualche partito che cerca di diffondere il suo nome, volto e professionalità con tutti i mezzi propagandistici di cui dispone (ed allora si ricade nel vecchio sistema partitocratico che si voleva eliminare o ridimensionare) oppure si presenta da solo sfruttando un altro tipo di conoscenze da parte della massa dei cittadini: l’aspetto fisico, una fama creatasi con le presenze televisive o le imprese sportive, il controllo della stampa e di altri mezzi di comunicazione. Insomma, tutto il contrario di quello che può essere competenza, impegno ed onestà.
Com’è evidente, in entrambi i casi viene eluso alla base il principio su cui si basava l’elezione diretta del sindaco!
E’ opportuna anche una terza considerazione. Mentre per le medie e piccole città l’amministrazione di un comune è cosa abbastanza semplice, visto che quasi tutte le spese sono rigide e che si tratta di solo di agire come “il buon padre di famiglia” utilizzando da un lato il personale dipendente dall’amministrazione cittadina e dall’altro le poche risorse disponibili per interventi necessari ed evidenti a tutta la popolazione, diverso è il caso delle metropoli.
Facciamo il caso di Roma (ma lo stesso si potrebbe dire per Napoli ed in parte minore per Milano). Roma è una metropoli che ha tre milioni di abitanti, un territorio di 3.000 kmq ed è – tra le altre cose – il più esteso comune agricolo d’Italia, con le sue borgate. Ma non solo, esso ospita ogni anno oltre dieci milioni di turisti, ha la presenza della sede della principale religione del mondo, la Chiesa Cattolica, ed oltre duecento ambasciate. Inoltre, ed è la cosa più importante, Roma ha un bilancio con dodici miliardi di deficit, venticinquemila dipendenti diretti ed altrettanti nelle aziende municipalizzate, anch’esse in forte e costante deficit: personale, peraltro, in costante diminuzione rispetto agli organici per il blocco del turn-over conseguente alle norme sulla “stabilità” disposte dal governo centrale. Vi sono milioni di chilometri annui di trasporto pubblico, tonnellate quotidiane d’immondizia da smaltire, decine di chilometri di strade da tenere in buona manutenzione.
Fare il sindaco, in queste condizioni, è impresa veramente titanica. E la cosa che più sorprende è l’irresponsabilità con cui ci si candida senza avere avuto mai nessuna esperienza amministrativa di rilievo: nelle file del partito democratico, vi è addirittura una ragazza “autistica”; e poi vi è un campione dello sport del polo, una ex-presidente della camera nota per le sue presenze televisive; leader politici anche di rilievo ma non amministratori; e via dicendo. Abbiamo avuto la recente esperienza di un chirurgo quale sindaco, il quale sarà stato pur bravo a svolgere la sua professione nel difficile campo dei trapianti d’organi umani, ma non è mai stato certamente un esperto amministratore pubblico!
La domanda che ci poniamo allora è la seguente: vale ancora la legge generale per l’elezione diretta del sindaco per le grandi metropoli? Innanzitutto, non sarebbe necessario stabilire che i candidati debbano avere almeno qualche titolo di esperienza amministrativa diretta pena l’esclusione, così come si fa per qualsiasi concorso pubblico? E non sarebbe meglio sganciare l’elezione dell’amministratore (che noi preferiremmo chiamare, così come fece il fascismo, “governatore”) da quella dei consiglieri?
L’ipotesi che ci sembrerebbe più accettabile è quella di dividere le elezioni: da un lato, dovrebbero esserci persone già altamente qualificate come amministratori pubblici o privati, con requisiti documentati, per la carica di sindaco-governatore; dall’altro, i consiglieri comunali dovrebbero rappresentare le esigenze ed il controllo da parte dei cittadini, con qualche potere di veto sugli atti dell’amministrazione, rivedendo quindi le loro funzioni come attualmente previste dalla legge. Del resto, nelle società commerciali gli azionisti non eleggono forse solo il consiglio di amministrazione, ma non l’amministratore delegato od il direttore generale, che viene scelto in un secondo momento e può essere cambiato se non è stato capace di svolgere il suo compito? Perché ciò che vale per la Fiat o l’Eni non può valere anche per una città simile ad uno Stato come Roma, Napoli, Milano?
In conclusione, riteniamo che dopo le passate esperienze e dinanzi alla caotica situazione attuale, sia necessaria una profonda riflessione su questo aspetto che incide poi pesantemente sulla vita quotidiana di milioni di persone.
Tutte problematiche che non avrebbero ragione di essere se la politica non avesse abdicato al suo ruolo
Condivido il giudizio espresso da Valter Ameglio. E’ oramai sotto gli occhi di tutti che la politica, così come la intendevamo fino a pochi decenni fa, non esiste più. Ha alzato bandiera bianca, si è arresa al mito della “società civile”. Così facendo si illude di riacquistare credibilità. Purtroppo non fa che allungare la sua agonia. A destra come a sinistra o se si preferisce nel centro destra come nel centrosinistra.