Nella Milano super-chic del post-Expo (una giungla che al confronto quella “da bere” degli anni ’80 era un convento di Orsoline), Camilla è un avvocato al servizio di una grossa società finanziaria: bellissima, elegantissima, ricchissima, stressatissima, infelicissima, divide un appartamento lussuosissimo con la figlia che la detesta e un pied-à-terre dorato con il non proprio affettuosissimo amante. Una notte, dopo una cena di lavoro in cui un collega le ha fatto uno sgarbo, si lancia giù dal taxi (come farà ripetutamente nel corso del film): due balordi in motorino la investono davanti al Palazzo degli Omenoni: lei si rompe un braccio, uno dei due investitori (abbandonato dall’altro) morirà in ospedale. Non identificato, il ragazzo sarà etichettato come “3/19”: terzo morto non identificato, a Milano, nell’anno 2019: Camilla, non del tutto sicura di non essere responsabile dell’accaduto (ha attraversato col semaforo verde o rosso?), cerca di dargli un nome, distraendosi dal lavoro e cominciando a vedere la vita da un’altra prospettiva.
Silvio Soldini, regista milanese-ticinese e fratello del velista Giovanni, era giunto al successo nel 2000 con un altro film “iniziatico” con protagonista femminile: “Pane e tulipani”, dove la pescarese Rosalba (Licia Maglietta), abbandonata dal marito in autogrill, finiva a ballare il liscio a Venezia con Fernando (Bruno Ganz); dopo un tentativo, assai meno riuscito (nonostante la ruffianata del riconoscimento ministeriale di “interesse culturale nazionale”), di replicarne il trionfo quattro anni dopo con il quasi-sequel “Agata e la tempesta”, Soldini si era reso però conto che la formula “Licia Maglietta interpreta una donna matura, sognatrice e annoiata, che cambia vita all’improvviso” poteva funzionare una volta sola.
Perciò, dopo un decennio e mezzo trascorso a vivacchiare con quattro filmetti da cineforum affollati dalle solite facce (Battiston, Buy, Rohrwacher, Mastandrea, Golino, Giannini jr), il beniamino dei “radical” in cachemire di Porta Nuova con l’abbonamento all’Anteo, non ha trovato nulla di meglio di rinverdire la formula “donna che a quarant’anni si scopre intrappolata in una dimensione che le sta stretta e cambia vita” (tema già affrontato da Woody Allen con due film poco convincenti: “Un’altra donna”, protagonista Gena Rowlands, 1988 e “Alice”, con Mia Farrow, 1990). Al posto dell’imitatrice di Anna Magnani (che già di suo era una caricatura) protagonista dei precedenti successi, stavolta c’è la raffinatissima Kasia Smutniak, fotomodella polacca resa nota in Italia dalle prime pubblicità per telefonini, e convertitasi alla recitazione: molto brava, pur annoverando nella sua filmografia alcuni tra i peggiori episodi del cinema italiano del Duemila (nel solo 2009 è riuscita a essere protagonista del riprovevole “Tutta colpa di Giuda” e co-protagonista del disgraziatissimo “Barbarossa”: opere di Davide Ferrario e Renzo Martinelli, non proprio due maestri della settima arte).
La sola differenza tra i due film con protagonista la Maglietta, è che qui non vi è alcuna traccia di commedia. Nelle intenzioni, e (per motivi diversi) nel risultato finale, “3/19” è un film terrificante.
Lo scenario è un immenso luogo comune: la Milano degli affari, dei manager senza cuore, dell’alta finanza materialista, priva di scrupoli e sentimenti. Anche i personaggi sono figurine stereotipate: Camilla, donna forte che non si fa problemi a rendersi antipatica, è circondata da uomini gretti, scorretti e scortesi, anaffettivi: il collega che si fa bello davanti a dei soci d’Oltreoceano con un’idea di lei precedentemente scartata almeno si cura di ricambiarla con dei riconoscimenti, il manager con il quale ha una relazione invece è il solito “uomo che non deve chiedere mai” da pubblicità del profumo: fondamentalmente stupido, menefreghista (quando scopre che lei è stata in ospedale per sistemare un braccio rotto, ridacchia ammettendo che se lo avesse saputo prima, mica sarebbe accorso al suo capezzale), superficiale (quel che conta nella loro relazione è organizzare i “weekend” assieme).
Per carità, questa Milano esiste, ed è proprio come la ritrae “3/19”. Eppure, la sicumera con cui Soldini, sin dal (sopravvalutato) “Pane e tulipani”, punta il dito contro la gente superficiale-piatta-mediocre etc. (che sia la piccola borghesia di Pescara – “Pane e tulipani” – o la media borghesia di Genova – “Agata e la tempesta” – e infine l’alta borghesia di Milano – “3/19”) si scontra col fatto che il pubblico al quale si rivolge si può riassumere in un’altra alta borghesia milanese: quella, arcinota, dei “radical chic”. Soldini lascia sullo sfondo uno dei temi preferiti di questo microcosmo – il pietismo peloso nei confronti degli immigrati – e senza rendersene conto ne mette in scena la cattiveria, il conformismo, la piccineria. Lo fa grazie al personaggio peggiore (si può anche chiudere nel baretto a fare la carina mentre canta, ma chi dà un manrovescio alla madre non è né una poetessa, né un’artista, né una sognatrice: è e resta spazzatura umana, senza possibilità di redenzione), Adele (la figlia di Camilla): viziatissima e ingrata, fannullona e zoccola (come faccia a cambiare amichetti in continuazione è un mistero, dato che ha i capelli sporchi per tutto il film), è il preciso riassunto di tutto ciò che sono gli universitari “baizuo”: le stesse frasi fatte, le stesse prese di posizione, le stesse pose e gli stessi atteggiamenti, lo stesso linguaggio, la stessa mentalità precostituita, persino la stessa faccia e la stessa voce; la stessa cattiveria, mascherata dietro pretese di filantropia.

“3/19” è per l’appunto il manifesto autoconsolatorio dell’alta borghesia milanese e radical chic, quella con la tessera Feltrinelli e l’abbonamento al Carcano, che si commuove per le disgrazie dei poveri sfogliando foto di Salgado stampate su libri da cento euro a tomo, che fa ecologismo girando in centro città col macchinone (oggi il centrodestra locale fa sceneggiate stupidissime contro le piste ciclabili che crescono a discapito delle carreggiate, ma le proteste contro le limitazioni al traffico nella cerchia dei bastioni furono tutte iniziative radicalchicchissime), che fa immigrazionismo per darsi patenti di bontà d’animo, salvo poi ammettere molto candidamente che gli immigrati servono per avere manodopera a basso costo, e ciò nonostante continuare ad attribuirsi la qualifica di “buoni” (anche a onta del fatto che le stragi in mare sono colpa di chi attira i disgraziati in queste sventure, non di chi le bloccherebbe). Autoconsolatorio, perché è un modo di dire: sì, a Milano (o comunque in Italia: si veda, riguardo Roma, i due film “Come un gatto in tangenziale”) c’è un’alta borghesia meschina: ma non siamo noi (aguzzini dell’immigrazione, detentori incapaci della cultura istituzionale e distruttori del sistema scolastico, ecologisti a ciance e inquinatori nei fatti); sono piuttosto loro, i cattivoni di Piazza Affari e dintorni. E via di luoghi comuni, sapientemente sparsi in tutto il film: chi abita in centro è un demone assetato di soldi, chi vive in periferia sa cos’è l’affetto; gli ometti malvestiti e sciatti hanno tanto cuore, i manager cravattari sono idioti anaffettivi; chi lavora tutto il santo giorno è un cretino che non sa vivere, chi balla e canta è un’anima bella. Autoconsolatorio, come il percorso di Camilla, che si lava la coscienza sbattacchiando sino in Liguria il cadavere d’uno sconosciuto. Nel suo super-appartamento di Porta Nuova, Camilla era prigioniera: la libertà comincia al raccordo di Piazzale Corvetto verso l’Autostrada del Sole. Manca Franco Battiato che canta “e per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità”, ma se n’è già appropriato Nanni Moretti (un grande colpevole di questo orribile status quo del cinema italiano).
Dal punto di vista prettamente filmico, “3/19” è un disastro: interamente caricato sulle esili spalle della Smutniak (brava, ma da qui a tirare avanti un film da sola ne passa), dopo la curiosità per la premessa il film sprofonda quasi immediatamente, fra attori di contorno (ahinoi, va ripetuto: le scuole di recitazione italiana ormai offrono questa media) disastrosi (il cameo del nipote di Camilla Cederna – peggior attore italiano di sempre, ex aequo con la Bellucci e Maya Sansa – è una dichiarazione d’intenti), dialoghi prevedibilissimi, scene imbarazzanti (il sogno di Camilla, legato alla morte della sorella, con lei che – tanto per cambiare – si sveglia di soprassalto, come se lo spettatore non avesse capito che lei stava sognando; il racconto, per l’appunto, della morte della sorella; Camilla che sale in continuazione su di un taxi e ogni volta urla che la si faccia scendere a metà percorso; il rapimento del venditore di calzini – scritta così può far ridere, vista nel film è ancora peggio) tempi morti, strafalcioni fotografici, e soprattutto tantissima banalità.