Filippo Facci è ontologicamente antipatico. Lo è fisionomicamente per quella bocca con gli angoli curvati all’ingiù, che ne rappresenta una smorfia di disgusto pure quando è allegro; lo è perché lo trovi, ad occhi chiusi, sempre dalla parte di quelli “contro”, quale che sia l’oggetto del contendere; lo è perché se ti deve dare del cretino, non cerca difficili locuzioni per girarci intorno nel timore che tu ti offenda.
Per questo, Filippo Facci mi piace; e molto. Perché io, come lui, non provo neppure a celare il fastidio che mi provoca circa l’85-90% della popolazione con cui mi capita di raccordarmi; perché io, come lui, se penso che uno sia un coglione mi premuro di non essere frainteso nel giudizio.
Perché io, non so se come lui, manifesto il mio credo verso il darwinismo sociale; in cui chi è capace è giusto che avanzi in onori ed oneri, e chi non lo è deve stare indietro, adeguarsi e, soprattutto, tacere.
Ma questa volta, confesso che l’ultimo libro di Facci mi ha fatto arrabbiare. Mi ha fatto arrabbiare perché, nel leggerlo, ho rivissuto tutta la stagione in cui – io testimone e quindi co-responsabile – la politica ha perso dignità, credibilità, autorevolezza; facendosi superare e svillaneggiare da altri poteri da cui avrebbe dovuto pretendere indipendenza, e facendosi via via rappresentare da gente priva di riferimenti culturali, valoriali e professionali. Gente priva di tutto (e quindi anche di contenuto, coerenza, progetto e scrupoli) capace di passare dalle bibite dello stadio alla Farnesina, dai processi di piazza alla tutela dei propri intrallazzatori.
Mi ha fatto arrabbiare perché mi rendo conto di come sia drammaticamente facile infarcire di cazzate la gggééénte(quella che, come detto, all’85-90% preferirei non esistesse), e di come sia sostanzialmente impossibile spiegare loro cosa si cela dietro le apparenze.
Mi ha fatto arrabbiare, perché ci ricorda come questo squallido popolo sia geneticamente portato ad alzarsi indossando una maglia, maledicendo e rinnegando con veemenza quella che ha indossato sino alla sera prima cone non ne avesse mai neppure visto i colori.
Mi ha fatto arrabbiare, perché mi ha sbattuto in faccia sensazioni e sentimenti che pure ho provato, che costituiscono l’unico atteggiamento della mia vita di cui provo vergogna. Leggetelo, non senza una confezione di Alka Seltzer sul comodino.
Filippo Facci, 30 aprile 1993. L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica, Marsilio, 2021. Pp. 224, euro 18.00
Ad onor del vero, caro Massimo, non fummo solo testimoni. Ma progratonisti di quella stagione. Al Raphael tra gli altri c’era il grande Teodoro Buontempo che anzi pare fosse colui che organizzò la contestazione frontale a Craxi portando le monetine. E di Tangentopoli beneficiò proprio il MSI ben guidato – si può dire – in quel momento dall’inpronunciabile Fini che divenne megafono del picconatore, Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Come non dimentichiamo l’amicizia di Mirko Tremaglia con Antonio Di Pietro. Sicuramente ci furono esagerazioni ma noi di quella storia fummo protagonisti in pieno. Secondo me però la classe politica dominante, si era suicidata da sola portando il clientelismo e la corruzione a regola in Italia. Nella famosa intervista a Giovanni Minoli, Giorgio Almirante criticò duramente Bettino Craxi. Umanamente mi spiace che Bettino sia morto non nella sua Patria (perchè indubbiamente a modo suo era un Patriota), ma ha avuto tante, troppe colpe. La dignità la politica l’aveva persa prima di tangentopoli. Discutibile o meno rimando al libro di Sciascia, l’Affare Moro nel quale lo scrittore siciliano nelle prime pagine si getta in una condanna della atttività in Parlamento di Moro quando questi rivendicava il primato non della Politica, ma dei politici, sulla magistratura.