Non ho certamente la presunzione di essere in grado di presentare l’ultima opera di Pietrangelo Buttafuoco, non avendone la competenza.
Desidero solo portargli il mio saluto, per l’affetto che a lui mi lega, essendo, come lui, “politicamente scorretto” e, quindi, in un mondo in cui tutti tendono, viceversa, vuoi per vigliaccheria, vuoi per convenienza, vuoi per ignoranza, a essere “politicamente corretti”, noi, alla fine, siamo dei “lupi solitari”.
Ma non è vero, caro Pietrangelo, come tu affermi facendo tuo Ibn Hamdis, che non abbiamo nessuno accanto. Infatti, siamo sì solitari, ma non soli.
Solitari perché aborriamo il branco; ma, nei momenti difficili, pur percorrendo sentieri diversi, ci ritroviamo sempre insieme nella stessa radura; sempre puntuali al richiamo della storia.
Certo, noi “lupi solitari”, nel mondo globalizzato, abbiamo contro un nemico invincibile: la pecora. Perché, parafrasando Longanesi, una pecora è una pecora, due pecore sono due pecore, centomila pecore sono una valanga inarrestabile.
Con Pietrangelo condividiamo il motto dei legionari fiumani del “Me ne Frego!”. Me ne frego delle convenzioni borghesi, dell’essere politicamente corretto, delle convenienze e, soprattutto, della convenienza. Vogliamo essere noi. Sempre. A testa alta. Senza ipocrisie. Con l’orgoglio del coraggio. Con il gusto della libertà. Forse, anche, con un po’ di spavalderia.
Ma in questi tempi, questi tempi che oggi viviamo, in cui il solo valore è il denaro, il tempo del commercio e del mercimonio morale e materiale, ci viene, quasi, da rifugiarci dietro uno sterile “Non me frega più niente!”.
“Il dolore pazzo dell’amore” è, in questo momento, il mio livre de chevet, che mi accompagna nelle notti difficili, anche perché non mi costringe ad una lettura continuativa, ma mi consente una rilettura per singoli autonomi capitoli, cuciti fra loro – come sono – dal filo della memoria e della ricerca delle radici.
Il libro di Pietrangelo, fatto sì di ricordi e di rimandi della memoria, appunto alla ricerca delle sue radici, si eleva, però, da banale scritto autobiografico, per assurgere a ricerca della memoria collettiva.
Noi, “politicamente scorretti” e, quindi, “lupi solitari”, siamo costantemente alla ricerca della nostra patria, di una patria perduta, perché il custode, che ritenevamo fedele, in effetti, dimostrò essere il capo dei Proci, per cui la casa dei padri andò distrutta.
Siamo, come dice Pietrangelo, “erranti e senza patria”, ma come il papiro, cui il libro è significativamente dedicato, friggiamo anche noi “all’idea di arrivare finalmente a destinazione: sul terrazzo, giusto trono del suo essere un ciuffo importante”.
Non seguiamo, pertanto, il lungo cammino di Ulisse, non avendo più patria che ci aspetta.
Seguiamo, piuttosto, l’impervio viaggio di Enea, con sulle spalle il vecchio Anchise con i Penati, la Tradizione, e la mano al figlioletto Ascanio, il Futuro. Siamo anche noi, “lupi solitari”, come Enea, alla ricerca di una nuova patria, ma non vediamo ancora all’orizzonte un Romolo capace di infiggere, con forza, l’aratro nella dura terra per segnare il solco della nostra nuova città: oggi, infatti, attorno a noi, vediamo solo magliari.
Noi siamo come la volpe e l’istrice del racconto visionario di Pietrangelo, che cercano “un luogo, anzi, un giorno la cui misura è sempre”. E che cosa è il luogo ove il giorno ha come misura l’eternità, se non la patria?
Dov’è, oggi, lo “zio Nino”, con la sua fantasia, con il suo coraggio, con la sua generosità, con il suo costante impegno, con la sua piena disponibilità, con la sua risata scanzonata, con il suo affetto per chi gli stava attorno e con il suo profondo amore per la sua e la nostra terra? Lo zio Nino, che fu zio di sangue per Pietrangelo e zio di cuore per tanti della mia generazione. Il suo ricordo non si perde: è sempre vivo in noi, e il suo esempio ci illumina in questi tempi di nebbia.
Storie di donne e storie di uomini; raccontate sul filo sottile della nostalgia e, perché no?, dell’ironia. Ma anche della rabbia per quello che potevamo essere e che non siamo. Storie nate nei piccoli “circoli di conversazione” senza futuro dei nostri paesi, e storie nate nell’immensità della sabbia di un deserto sognato come luogo di speranze; storie nate in un giardino profumato, come luogo d’amore; storie di amori giovanili, come se gli amori della senescenza non fossero anch’essi giovanili! Storia di un amore struggente che restituì la vista a Carlo, il cieco di guerra, che poi, in pace, fu luce e guida dei nostri anni giovanili.
Storie di gloria e di coraggio.
Sul muro diruto di una povera casa colpita dalla bomba nemica, il nostro contadino, con mano ferma, ha scritto:
“I petri carunu
U cori è d’azzaru
Nui vinciemu”
Di questo popolo siamo pazzamente e dolorosamente innamorati.
Questo popolo derubato maltrattato sfruttato deriso schiavizzato minacciato violentato non da un nemico esterno, ma da chi dovrebbe essergli fratello.
Violenti, che manco gli animali.
Ladri, che manco la dignità ti lasciano.
Sperammo in un terremoto morale che scuotesse – finalmente – le coscienze dalle fondamenta.
Ma fu la terra, questa povera terra nostra, ad essere scossa fin dalle radici più profonde. Ma dalle umili case crollate, grazie alla fantasia di Ludovico, il poeta, fiorì un giardino. Sbocciarono i fiori di Consagra e di Cappello, di Pomodoro e di Paladino, mentre l’ineguagliabile Burri coprì, con un immenso sudario bianco, il dolore, e lanciò un messaggio di speranza attraverso un intricato labirinto, alla fine del quale ritrovi la vita.
Storie di uomini e di donne…
Piccoli uomini e piccole donne, trasformati dalla penna di Pietrangelo in Eroi di ieri, di oggi e di domani.
Piccole storie di piccoli uomini che, cuciti assieme, diventano Mito.
Storie, racconti, memorie, leggende, personaggi che ci legano a questa terra di cui siamo pazzamente e dolorosamente innamorati.
Terra tradita violata invasa distrutta bruciata, non solo da orde straniere, ma più spesso da paria nostrani.
Una terra dove fiorisce il gelsomino mielato e odoroso, di cui, come ci ricorda Pietrangelo, suggiamo il nettare per darci forza in una lunga notte d’amore dolce e profumata.
Una terra dolorosa che, comunque, non intendiamo abbandonare. Non abbiamo nessuna intenzione di andare dallo zio Saro, l’americano. Tutti noi abbiamo uno zio Saro in America, dal quale ci divide il mare, ma la nostra vita è profondamente radicata in questa terra.
Ah, mari, mari disgaziatu,
picchì m’alluntanasti dà me vita?
La Sicilia è un’isola, e, quindi, anche per andare a Milano dovrai passare il mare, come per andare “all’Ammerica”, come dicevano i nostri vecchi. E, allora, a Milano, con profonda nostalgia, e pazzo d’amore per tua terra che hai lasciato, dirai
Ah, mari, mari tintu,
è tutta a li to spaddi ‘u paradisu
unni campà cuntentu e senza làstimi!
In questa terra abbiamo costruito la nostra ridotta di Giarabub, ultimi irriducibili legionari del colonnello Castagna, contro le orde interne ed esterne.
Il critico, evidentemente un critico assai colto, dice di Pietrangelo che è un cantastorie. Sommessamente dissento.
Le storie dei cantastorie, infatti, cominciano tutte con “C’era una volta un re”, e finiscono con un fatidico “E vissero felici e contenti”.
Ma Pietrangelo, viceversa, con il suo libro di racconti, non è un cantastorie, ma un cantore di storie senza tempo. Alla maniera di Omero.
Grazie, Pietrangelo, per questa tua ultima fatica, quasi un parto doloroso; grazie per questo tuo libro, compagno di un’altra notte terribile.
Notte buia, non illuminata da un’abbagliante luna piena che ho – forse – dimenticato; una notte nera dove si staglia nel cielo nero una mezzaluna d’argento, di cui io, come te, come il grande Hamdis, come lo straordinario Emilio, che con la sua dolce traduzione – al pari delle sue potenti cancellature – fa risaltare ancor di più la parola tradotta o cancellata, ne farò una barca, per volare anch’io verso il sole.
Il sole giallo dell’Aurora da cui sboccia un nuovo giorno.
Un giorno di speranza e di resurrezione.
Pronti, per affrontare una nuova vita.
Vecchi, nuovamente giovani.
E’rramu sugnu e senza patria e senza
Nuddu. Ah, mari disgraziatu,
picchì m’alluntanasti dà me vita?
Avrìa pigghiatu ‘a luna a fuccighiuni
Comu varca bulanti celu celu
Ch’arriva ò suli – e mi lu strìnciu ò pettu.
Janchi mi divintaru li capiddi.