Alessandro Campi ha pubblicato il libro dal titolo Il fantasma della nazione. Il libro prende atto che “la nazione [è] nuovamente al centro della dinamica politico-sociale contemporanea”: “la nazione”– si legge – “pur in un contesto economicamente iperglobalizzato e tecnologicamente interconnesso, è ancora oggi l’unità politico-simbolica e la forma aggregativo-affettiva intorno alla quale continuano a strutturarsi – come è spesso accaduto nel corso del Novecento in molti passaggi storicamente cruciali – lo spazio politico pubblico, le identità e le appartenenze di gruppo, le relazioni internazionali (che in larga parte restano ancora relazioni tra Stati nazionali sovrani) e, aspetto ben più importante, i processi di legittimazione democratica (le democrazie hanno storicamente e ancora mantengono una base politico-simbolica essenzialmente nazionale)”.
Relativamente alle manifestazioni storiche del nazionalismo italiano, Campi intravede “una sorte di filo comune”, consistente in ciò che “la destra italiana … è stata nazionalista più sul piano del linguaggio che su quello concretamente politico; ha cioè sviluppato una visione della nazione intrisa di retorica e sentimentalismo ma assai poco concreta e fattuale. Non solo, ma in molte sue espressioni politico-dottrinarie novecentesche … essa non ha riservato alcuna particolare attenzione alla nazione come formula (e forma) politica e come fattore politico-ideologico aggregante; tanto meno ne ha fatto l’oggetto di una elaborazione teorica e dottrinaria originale” (pag. 29).
In particolare, secondo Campi, fin dai primi del Novecento, i Nazionalisti italiani, confluiti nel 1923 nel Partito Nazionale Fascista, avrebbero delineato “un nazionalismo aggressivo e colonialista, dinamico e guerrafondaio, assertivo e roboante, d’impronta industrialista e iper-modernista, ideologicamente radicale, laicista e spesso animato da sentimenti di conquista militar-territoriale …. È un nazionalismo, quello primo-novecentesco, che a confronto con quello risorgimentale ha pesantemente subordinato il valore della libertà, individuale e collettiva, al principio di autorità statale, in una chiave organicistica. Al tempo stesso esso ha anche sacrificato ogni elemento volontaristico o soggettivo a una concezione naturalistica della nazione, la cui vitalità poteva esprimersi, secondo i suoi fautori, solo in termini di forza e di grandezza materiale” (pag. 36 s.).
Si tratta, come si vede, di giudizi estremamente severi. Tanto severi da meritare una verifica del loro effettivo spessore. L’idea portante di Campi è, dunque, chiara: “la destra italiana” non avrebbe riservato particolare attenzione “alla nazione come formula (e forma) politica e come fattore politico-ideologico aggregante”. E qui c’è un aspetto da segnalare. Si vedrà qui di seguito come si possano esprimere molte riserve sulle opinioni di Campi sul nazionalismo italiano. Occorre, tuttavia, riconoscere all’A. di aver colto l’essenza dell’idea di Nazione: lungi dall’essere un dato meramente culturale, la “nazione” è “formula (e forma) politica”, nonché “fattore politico-ideologico aggregante”.
Se così è, se la “nazione è forma e formula politica”, l’esame delle declinazioni che tale formula ha avuto nel tempo, deve essere storicamente contestualizzato, dal momento che non può darsi “formula politica”, ossia ipotesi più o meno sofisticata in ordine alla strutturazione dei rapporti sociali, separata dalla contingenza storica.
In altre parole, i contenuti assegnati a tale formula, le stesse sue modalità di espressione non possono essere avulsi dal clima culturale e dalle esigenze politiche concrete dominanti nel periodo storico di volta in volta preso a riferimento. Solo a questa condizione, infatti, si potrà cogliere quanto di quei contenuti è frutto di suggestioni contingenti e quanto, invece, contribuisce a fissare i parametri culturali e politici sui quali misurare un nucleo fondativo stabile dell’idea di nazione. Proprio in forza di questo collegamento con l’attualità, a proposito della parola “nazionalismo” si è affermato che essa designa “una delle forze più intense e al tempo stesso più ambigue della storia degli ultimi due secoli”
Dunque, è necessario abbattere le ambiguità. Ciò significa che, nell’esaminare le declinazioni del nazionalismo italiano, la contestualizzazione storica non è solo espressione di un corretto metodo di “fare cultura”. Piuttosto, essa costituisce un’imprescindibile esigenza per evitare imbarazzanti fraintendimenti.
Così, quando si afferma che i nazionalisti dei primi del Novecento esprimevano “un nazionalismo aggressivo e colonialista, dinamico e guerrafondaio, assertivo e roboante, d’impronta industrialista e iper-modernista” (Campi), occorrerebbe tener presente quanto è di comune dominio presso gli storici, ossia che a cavallo tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento il c.d. “mondo sviluppato”, costituito da Europa occidentale e Stati Uniti, era un aggregato di economie nazionali in conflitto tra loro: “nel 1913 i quattro maggiori stati industriali [ossia Gran Bretagna, Germania, Francia, Stati Uniti] fornivano il 72 per cento dell’intera produzione manifatturiera mondiale” in un sistema di concorrenza internazionale senza quartiere. In quel periodo Max Weber osservava che “i paesi civili … si stanno avvicinando al punto in cui soltanto la forza deciderà la parte di ciascuna nazione nel controllo economico della terra e quindi della sfera di attività del suo popolo e in particolare il potenziale di guadagno dei suoi lavoratori”.
In altre parole, in quegli anni politiche imperiali erano espressamente perseguite dagli stati maggiormente industrializzati, attraverso i cui eserciti marciavano le singole economie nazionali. Le conquiste coloniali si inserivano in tali politiche in quanto finalizzate a garantire materie prime in esclusiva, mercati di sbocco, rotte commerciali, posizioni strategiche.
In questo scenario, affermazioni che oggi possono sembrare scomposte, erano assolutamente allineate con la cultura europea dell’epoca. È, tuttavia, opportuno non limitarci alla superficie e procedere a riscontri più specifici, attraverso la voce del più autorevole dei Nazionalisti italiani: Alfredo Rocco. Si ricorderà che, secondo Campi, ci troviamo di fronte ad “una visione della nazione intrisa di retorica e sentimentalismo ma assai poco concreta e fattuale”.
La domanda è: quanti si sentono di condividere questo giudizio di fronte all’analisi di Rocco sulla situazione italiana del 1919?: “oggi più che mai l’Italia si è rivelata povera di materie prime, scarsa di capitale, esuberante di popolazione e questi sono i termini che ci conducono fatalmente alla ricerca fuori dei confini delle materie necessarie allo sviluppo della nostra industria, alla ricerca di sbocchi e mercati alla nostra produzione ed alla tutela ed all’utile impiego della nostra emigrazione” (Scritti e discorsi politici, II, 477). Di conseguenza, – e qui Rocco sembra rivolgersi direttamente a Campi – “riguardo a questa accusa [di imperialismo] dobbiamo essere molto espliciti e dire che l’imperialismo italiano non è che un riflesso dell’imperialismo degli altri, che noi combattiamo. L’Italia ha una posizione di pura difesa ed è ancora troppo indietro in questo periodo della rivoluzione mondiale per fare una politica aggressiva. Essa si trova in una situazione simile a quella in cui si trovò alla fine del ‘400 quando la forma politica predominante in Italia era lo Stato-città, mentre fuori d’Italia si erano costituiti gli Stati nazionali. Oggi non siamo ancora alla fase della Stato-nazione, mentre fuori si formano gli Stati-impero. Come prima lo Stato-città fu sopraffatto dallo Stato-nazione, lo Stato-nazione sarà sopraffatto all’Impero. Se quindi noi non facciamo dell’imperialismo, mettiamo l’Italia nelle condizioni di minima resistenza” (486 s.).
Ognuno vede come in Rocco vi sia, non già “retorica” e “sentimento”, ma solo fredda analisi del dato storico e dei conseguenti passi politici. Ciò vale anche con riguardo all’ulteriore affermazione di Campi, secondo la quale “dal punto di vista economico … la nazione-nazionalista aveva come mira principale non il benessere dei singoli, ma la potenza dello Stato-nazione perseguita attraverso politiche di modernizzazione e industrializzazione forzata” (49).
Anche a questo riguardo, lasciamo la parola ad Alfredo Rocco: “Qui viene in campo il nostro programma e il nostro punto di vista nazionale. Noi ci preoccupiamo soprattutto della produzione, perché senza di essa lo Stato moderno non esiste e non può vivere, perché senza una grande produzione l’Italia sarebbe schiacciata rapidamente e irrimediabilmente nella gara della concorrenza mondiale non per una concezione materialistica dello Stato o della Nazione o in omaggio ad un materialismo storico che abbiamo sempre ripudiato, ma perché nella vita moderna, fra gli strumenti necessari della grandezza della Nazione, è la ricchezza economica. I soli valori morali non bastano e noi abbiamo visto che per fare la guerra occorrono le grandi organizzazioni industriali, occorre resistere economicamente per poter resistere militarmente”.
Di fronte a tale situazione le conseguenze sul piano politico sono inevitabili: “Fine dell’azione politica è lo sviluppo della nazione, considerata, non come pura somma degli individui viventi, ma come unità riassuntiva della serie indefinita delle generazioni… Fondamentale ed organica legge di vita della nazione è la solidarietà nazionale, mediante la quale gli individui e le classi, mentre adempiono alla funzione che loro spetta come organi della nazione e strumenti dei suoi fini superiori, realizzano altresì, nell’unico modo possibile, il loro proprio benessere; più alta e più prospera è la vita della nazione, più alta e più prospera è la vita dei suoi cittadini” (489).
Si sono riportate alcune riflessioni di Alfredo Rocco, non solo e non tanto per ristabilire una verità storica, quanto piuttosto perché quelle parole di Rocco segnano tuttora l’orizzonte sul quale la Destra del XXI secolo è chiamata a ripensare il cruciale rapporto tra persona e comunità, tra diritti individuali e destino comune.