C’è una catena di supermercati in Italia, di quelle che vanno per la maggiore nelle regioni rosse, che si fa grande pubblicità affermando di sponsorizzare la vaccinazione anti Covid nel continente africano. Molti politici italiani e non solo, hanno enfatizzato l’idea di inviare i vaccini in via di scadenza o inutilizzati in Africa, per “salvare milioni di vite umane”.
In realtà questi vaccini quando sono arrivati erano ormai inutilizzabili, principalmente per questioni organizzative e sono finiti nelle discariche del Senegal, del Malawi, del Sud Sudan. Altri Paesi come la Repubblica democratica del Congo hanno rifiutato l’offerta ancor prima che i vaccini arrivassero a casa loro. In Nigeria solo il 2% della popolazione risulta vaccinato. Perché tutto questo? Perché prima di parlare bisognerebbe conoscere la realtà africana e capire che una vaccinazione di massa, in tutto il continente, è pura utopia.
Se percorrete una qualunque strada di notte nel continente nero, scoprirete il buio che più buio non si può, anche attraversando centri abitati, che poi sono villaggi. La corrente elettrica è per di più sconosciuta, ogni tanto la luce di un bar, uno solo, con una televisione accesa costituisce un richiamo per la gente del posto. Quindi di frigoriferi non se ne parla proprio. E gli alberghi sono solo nei luoghi turistici.
Ho avuto diverse esperienze da medico in Africa che spiegano quanto ho già asserito. Nel 1981, in Libia scoppiò un piccolo focolaio di poliomielite; poiché lavoravo, appena laureato, per l’Ufficio Sanità Estera dell’Eni, fui incaricato di provvedere ad una vaccinazione del nostro personale in loco. Chiamai l’OMS a Ginevra ed un medico in servizio mi spiegò che avrei dovuto vaccinare solo la popolazione adulta, in quanto i bambini italiani erano già immunizzati per legge.
L’ ufficio acquisti dell’Eni provvide subito ad acquistare i vaccini anti-polio ma c’era il problema di come farli arrivare in Libia; se li avessi portati con me, me li avrebbero subito sequestrati all’aeroporto di Tripoli, salvo riconsegnarmeli ormai inutilizzati, perché sarebbero stati custoditi fuori da un qualsiasi frigo.
Ma l’Eni allora era un piccolo Stato nello Stato, tutto era fattibile, e così i vaccini vennero portati via nave fino ad una piattaforma petrolifera davanti a Tripoli, mentre io raggiungevo la capitale con un normale volo di linea. Venni alloggiato nel Circolo Ufficiali dell’esercito libico, dove risiedevano molti nostri dirigenti ed il mattino dopo il mio arrivo, due nostri funzionari mi vennero a prendere e mi portarono ad un piccolo elicottero che dopo un rapido volo si posò sulla piattaforma. Il tempo di una piccola sosta e poi raccolsi la borsa termica con i vaccini, custodita nelle celle frigorifere della cucina, presi l’elicottero e tornai a Tripoli. Il giorno dopo ancora sottoposi a vaccinazione tutti i nostri dipendenti che lavoravano nella capitale; nei giorni successivi percorsi in macchina o con piccoli aerei nostri tutta la Libia, portando il vaccino a tutti, all’insaputa delle autorità libiche. Fu più un’operazione volta a dimostrare la vicinanza dell’Italia ai nostri tecnici che lavoravano in un paese difficile che una vera iniziativa a salvaguardia della salute dei dipendenti. Ma tutto fu possibile aggirando i normali controlli delle autorità locali, dove cavilli e inadempienze avrebbero vanificato ogni tentativo di vaccinazione.
In un’altra esperienza africana, in Ghana, mi trovai ad esercitare in un piccolo ambulatorio creato da una Onlus italiana sulla costa, in un villaggio di pescatori. Ogni mattina per raggiungere la sede di lavoro, ricordo che dovevo passare a piedi sopra i cavi elettrici di un palo della luce caduto a terra da non so quanto tempo. A poche ore dall’inizio delle visite le pale sul soffitto dell’ambulatorio smettevano di girare perché andava via la corrente e si cominciava a sudare. Tornato in Italia con altri colleghi della Onlus organizzammo delle serate per raccogliere fondi per procurare un ecografo per l’ambulatorio. L’ecografo fu acquistato e spedito; giace ancora in un qualche container del porto di Accrà, nessuno è mai andato a ritirarlo.
Più recentemente in Tanzania un turista italiano venne colpito da una forma acuta di prostatite e gli si formò in breve un globo vescicale, aveva la vescica grande come un pallone da calcio. Eravamo in piena savana, ormai era sera. Non si trovava alcun catetere, venne chiesto l’aiuto dei Flying doctors, medici che in aereo da Nairobi avrebbero raggiunto il nostro albergo e soccorso il nostro sofferente amico.
Fu improvvisata una pista per atterraggio nella savana, dislocando una ventina di jeep a fari accesi lungo una distesa di terra; ma le coordinate fornite al pilota del piccolo Cessna furono sbagliate e nessuno arrivò quella sera. Non bisognava perdere tempo, così tentai il tutto per tutto; chiesi una normale siringa per aspirare dall’esterno l’urina raggiungibile ormai da un ago, tanto era dilatata la vescica sopra il pube. Purtroppo la siringa era tanzaniana e lo stantuffo mi rimase in mano al primo tentativo; fortunatamente una ragazza italiana aveva portato con sè delle siringhe nostrane ed alla fine, aspirazione dopo aspirazione, ridussi il volume del globo vescicale. La mattina dopo il dottore volante atterrò, questa volta grazie alle coordinate giuste, e con un adeguato catetere risolse il problema.
Se vogliamo fare seriamente una campagna vaccinale in Africa, occorrono sforzi organizzativi enormi, vaccini che resistano per tempo a temperature ambientali, frigoriferi ma anche siringhe; medici ed infermieri, capacità di informazione, jeep ed altri veicoli adeguati. Per ultimo fare piazza pulita di stregoni vari; la nostra Onlus in Ghana dovette pagare un guru locale perché non ostacolasse il lavoro dei medici italiani. Un po’ come con certi No vax da noi.
Nonostante il solo 2 % di popolazione vaccinata, c’è stata una ecatombe da covid in Nigeria ?