Lawrence d’Arabia è morto. Per la seconda volta. Questa volta non è stata una motocicletta (o una misteriosa macchina nera…) ad ucciderlo, ma una brutta malattia. L’alcool e la noia. Non si tratta, ovviamente, del “re senza corona” dei beduini hashemiti ma della sua rappresentazione cinematografica: Peter O’Toole.
Grazie a questo irlandese dai magnifici occhi azzurri, noi ragazzi dei Sessanta scoprimmo l’Oriente, il deserto. Il sapore dell’avventura e le tortuosità dell’animo umano. Il bisogno di rivolta. Con il Lawrence cinematografico di David Lean — molto più bello del piccolo ufficiale gallese che infiammò il Levante — sognammo di conquistare Aqaba (le tante Aqaba mai espugnate), umiliare generali e politici e — sorvolando sullo sgradevole “incidente” di Derrea — raggiungere vittoriosi, infine, Damasco. E poi rinunciare…
Per qualche minuto o qualche anno (poco importa), tutti noi c’immaginammo Lawrence-Peter. Certo, era un film, solo un film. E poi, come ammoniva Lawrence, “la gioventù sa vincere, ma non sa conservare la vittoria..”.
In ogni caso, al cinematografo e/o davanti alla televisione, Peter O’Toole ci regalò con la sua interpretazione di “El Orens” un sogno potente. Immagini forti che poi alcuni di noi, qualche anno dopo, ritrovarono nelle pagine di “Una sfida in Kurdistan”, lo splendido libro di Jean-Jacques Langedorff sulla “libertà dell’avventuriero”. E allora — ma questa è un’altra storia — immaginammo d'”essere una biglia lanciata da una mano politica attraverso lo spazio e il tempo”.
Ma Peter O’Toole fu anche altro. Capace di narrazioni intrecciate e sensibilità profonde, l’attore interpretò mirabilmente il conrandiano “Lord Jim”, magnifica eligia dell’Onore e poi “Leone d’Inverno” e “Becket e il suo re”, due raffinate e profonde indagini — sullo sfondo dell’Europa medievale — sulla ragion di Stato e gli abissi del potere. Grandi film a cui seguirono lunghissimi silenzi, epiche bevute con Richard Burton e Richard Harris, qualche cammeo (il più importante con Bertolucci ne “L’ultimo imperatore”) e, nel 2003, un Oscar alla carriera. Un premio di consolazione, dopo otto candidature.
L’ultima apparizione sul set di Peter risale a due anni fa, quando Dean Wright, il supervisore della trilogia della “Signore degli Anelli”, lo convinse a interpretare un religioso, un martire dellla “Vandea” messicana nel suo film “Cristiada”, una bella pellicola dedicata agli insorti cattolici messicani contro il governo petrol- massonico e filo yannkee di Plutarco Elias Calles. Ma “Cristiada” è un film, come “Katyn”, sgradito al circuito ufficiale italiano e quindi dimenticato in qualche scaffale. Forse oggi qualcuno potrebbe avere qualche ripensamento…
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