La guerra russo-ucraina oltre a rappresentare la più grave crisi europea degli ultimi anni costituisce un potente elemento di “distrazione di massa”, in grado di monopolizzare l’attenzione dell’opinione pubblica – spesso anche delle diplomazie – lasciando così campo libero ad attori internazionali determinati a cogliere l’occasione per regolare vecchi conti.
È quanto con sempre maggior frequenza sta accadendo nel Caucaso meridionale, dove l’Azerbaigian da un lato tratta con l’Armenia in vista di un accordo di pace che ponga fine al caos post-sovietico, dall’altro stringe sempre più la propria morsa sul Nagorno Karabakh, con uno stillicidio di piccole e grandi provocazioni. L’obiettivo resta sempre lo stesso: riassorbire la Repubblica dell’Artsakh – stato armeno non riconosciuto benché indipendente de facto da un trentennio – all’interno dei confini azeri.
Ma non c’è solo Baku intenzionata a cogliere l’opportunità offerta dalla generale distrazione e dell’inevitabile minor presenza di Mosca nella regione – russi sono i militari schierati come forza di interposizione sulla linea dell’armistizio tra azeri e karabakhi -, nelle ultime settimane anche Ankara ha messo in moto le proprie forze armate per colpire duramente un nemico storico: i curdi dell’Iraq settentrionale.
Nella notte tra il 17 ed il 18 aprile scorso, l’aviazione turca ha effettuato numerose incursioni nelle regioni di Zap, Metina e Avasin Basyan. Obiettivo basi, depositi di munizioni e rifugi del Pkk iracheno. Ai raid aerei ha poi fatto seguito l’intervento degli elicotteri d’attacco, dei droni e dell’esercito turco, in particolare dei reparti delle forze speciali impegnati a distruggere i siti sopravvissuti agli attacchi aerei. L’obiettivo della campagna di Ankara – l’ultima di una lunga serie, avviata nel 2020 – è duplice: in primo luogo distruggere le basi logistiche curde ed ampliare quella “fascia di sicurezza” che – come in Siria – i turchi hanno da tempo creato nell’Iraq settentrionale, in prospettiva insidiare in profondità i santuari del Pkk curdo.
Uno degli aspetti più interessanti è dato dal fatto che l’operazione turca è stata preceduta, due giorni prima dell’inizio degli attacchi, dalla visita di Mesrur Barzani, esponente del Partito Democratico del Kurdistan e primo ministro del governo regionale curdo, ad Ankara. Un modo, da parte turca, per dividere ulteriormente il complesso mondo curdo e, probabilmente, rendere più “digeribile” il proprio intervento in Iraq agli alleati occidentali, Stati Uniti in primis.
Ancora tutte da decifrare le possibili ricadute nella regione dell’intervento turco, in particolare nella Siria settentrionale. Anche questa regione, infatti, vede Ankara impegnata a consolidare una fascia di sicurezza eretta a protezione del proprio confine meridionale. Ancora una volta i principali nemici sono i curdi che, tuttavia, qui potrebbero decidersi a raccogliere il sostegno offerto da Mosca. La Russia, infatti, punta a consolidare la presa del governo siriano nelle regioni settentrionali e, in cambio di una ridefinizione delle aree di influenza nella regione a favore di Damasco, potrebbe offrire ai curdi tutela nei confronti di Ankara.
Quella tutela che gli Stati Uniti, pronti a giocare la carta curda nella lotta contro l’Isis e lo stesso regime di Damasco, da tempo non sembrano più disposti a fornire ad alleati diventati, evidentemente, troppo ingombranti.