Poco più di un anno fa – il 30 agosto 2021, per l’esattezza – l’ultimo aereo americano decollava da un aeroporto di Kabul in preda al caos, segnando la fine di una fallimentare operazione militare durata più di vent’anni. Da allora sull’Afghanistan nuovamente governato dai Talebani è calata una cortina di generale disinteresse, salvo qualche articolo di maniera sulla condizione delle donne e sull’involuzione del vivere civile sotto il tallone degli studenti coranici.
A dispetto di questa visione di maniera, che poco dice sulla complessa realtà del Paese e soprattutto sulla sua evoluzione, il governo dei Talebani continua discretamente a tessere una rete di relazioni internazionali, funzionali anche al rilancio economico dell’Afghanistan. Rapporti che consentono di cogliere qualche successo – non solo simbolico – sulla scena internazionale, come il mancato rinnovo delle restrizioni di spostamento internazionale per alcuni esponenti del regime in vigore, in diverse forme, dagli anni ’90. Una “vittoria” che molto deve ai rapporti di buon vicinato che Kabul sta costruendo con Russia e Cina, nazioni che, seppur per differenti motivi, sono entrambe interessate ad un Afghanistan stabile e non ostile, se non proprio amico. Mosca e Pechino, mosse da una tradizionale visione improntata ad una sana Realpolitik, vedono in un Afghanistan stabilizzato un fattore centrale per lo sviluppo, o il mantenimento, di equilibri geopolitici ed economici ad esse favorevoli.
Con la Russia il governo talebano sta cercando di chiudere un accordo per ottenere forniture petrolifere – un’intesa del genere è già stata raggiunta con l’Iran, impegnatosi a consegnare 350mila tonnellate di petrolio -, mettendo sull’altro piatto della bilancia prodotti alimentari e minerali grezzi. Litio in particolare, indispensabile per la produzione di batterie. Risorsa che può far gola a Mosca, per cui, inoltre, un Afghanistan non dilaniato dai conflitti tribali è una minaccia in meno alla stabilità per i Paesi dell’Asia centrale ex sovietica.
Quanto a Pechino, è una partita estremamente complessa quella che il Dragone sta giocando in Afghanistan. Sotto il profilo più strettamente economico c’è l’interesse cinese allo sfruttamento delle risorse minerarie afghane, finora praticamente intatte. Sempre più insistenti sono le voci di una trattativa in corso tra Kabul e Pechino per lo sfruttamento delle miniere di litio e dei giacimenti di gas e petrolio. Un Afghanistan pacificato, seppur alla maniera talebana, potrebbe poi rappresentare un’ulteriore tessera del mosaico della nuova via della seta cui la Cina sta pazientemente lavorando da anni, nel suo sforzo di proiezione verso occidente. L’Afghanistan, in particolare, potrebbe rafforzare il corridoio economico Cina – Pakistan. Il dialogo con il governo talebano è rilevante per Pechino anche su un tema interno: il sostegno alle formazioni armate della minoranza uigura, etnia turcofona che nella regione dello Xinjang contesta le politiche di assimilazione forzata imposta dalla Cina. Un confine afghano meno poroso – se non addirittura sigillato – per i combattenti uiguri sarebbe un importante risultato per Pechino, risultato che per il suo rilievo val bene il sostegno “umanitario” alla disastrata economia afghana (la Cina ha garantito un miliardo di yuan, poco meno di 150 milioni di dollari, in aiuti umanitari e per lo sviluppo al governo di Kabul).