Per Alberto Magnani su il Sole 24 ORE ”l’agricoltura impara ad adattarsi al climate change globale”. Certo, il clima sta cambiando, le temperature tendono sempre di più ad alzarsi. Basti pensare che, secondo l’analisi della Coldiretti, che si è avvalsa dei dati ISAC Cnr che dal 1800 rileva le temperature, il 2023 è l’anno più caldo di sempre. Nel primo bimestre 2023 le piogge sono diminuite del 30% e la neve è stata scarsa sia sulle Alpi che sugli Appennini. L’autore sostiene, evidentemente con il conforto di alcuni esperti, che esiste la soluzione per fare fronte al climate change nell’ambito dell’agricoltura. Sono i servizi climatici.
Secondo Magnani, il tutto consisterebbe nella “raccolta e la trasmissione di informazioni per adattare vari settori economici alle temperature oltre la norma, precipitazioni altalenanti ed eventi estremi come i cicloni che si rovesciano sull’Africa australe”. Aggiungerei che il cambiamento climatico comporta anche la siccità, il dissesto idrogeologico che insieme ai cicloni comportano milioni di vittime, lo scioglimento dei ghiacciai, danni materiali incalcolabili e disagi enormi agli esseri viventi, l’innalzamento degli oceani, la scomparsa di migliaia e migliaia di specie animali e vegetali. Si stima che ogni giorno nella biodiversità scompaiano almeno 50 specie viventi certamente non solo a causa del cambiamento climatico ma anche a causa di questo e della distruzione dell’habitat che è strettamente connesso al primo. Si stima anche che la biodiversità si riduce a un ritmo da 100 a 1000 volte superiore rispetto a quello naturale.
Se volessimo dare per scontato che i servizi climatici possano essere efficaci all’adattamento dell’agricoltura al climate change globale, forse l’autore ha dimenticato che il cambiamento se non viene fermato, i suoi effetti permarrebbero, anzi si accentuerebbero, come autorevoli continui studi confermano. Questo corre più veloce. Gli eventi estremi sono sempre più diffusi, sempre più numerosi, sempre più improvvisi e con una frequenza sempre più ravvicinata, sempre più devastanti.
Magnani pensa forse che adattando l’agricoltura al cambiamento climatico vengano risolti tutti i problemi? Perché, per esempio non si pensa di fermare la deforestazione che in pochi decenni ha spogliato il Pianeta di circa il 40% delle proprie foreste piuttosto che adattare l’agricoltura al cambiamento climatico? Pensiamo a consolidare il terreno, assorbire le piogge e assicurare cibo alle popolazioni colpite.
Nel Nepal il 70% della popolazione sopravvive grazie alle foreste. Ma con l’avanzare della deforestazione , secondo il World Resources Institute, il Nepal si è posizionato all’undicesimo posto nel mondo per emissioni.Non mancano esempi virtuosi come il Giappone: il 32% del territorio è coperto da foreste molte delle quali protette. Le foreste durante gli tsunami hanno salvato vite umane e mitigato i danni che la forza impetuosa degli tsunami provoca.
L’autore cita Matteo Dell’Acqua, professore associato alla università Sant’Anna di Pisa: i servizi climatici “ possono aiutare, in questa transizione, aumentando la sostenibilità dell’agricoltura”. “La sfida è abbassare l’impatto dell’agricoltura al climate change , mitigandone l’impatto all’agricoltura sull’ambiente, integrando un’alta produttività con una maggiore resilienza e un minor bisogno di “supporti”,informazione climatica accurata e la ricerca di varietà che resistano al cambiamento”.
La questione, secondo Dell’Acqua non è solo quello di stimolare “lo sviluppo economico, ma anche la preservazione delle identità delle culture locali è alla base di un progresso condiviso. Dove le persone possano trovare orgoglio e appartenenza. Non alienazioni“ .
Queste affermazioni sembrano in contrasto tra di loro. Come si potrebbe conciliare la preservazione delle culture locali, trovare orgoglio e appartenenza con la ricerca globale di varietà che resistano al cambiamento e che quindi andrebbero a sostituire le colture locali e i metodi locali della lavorazione dell’agricoltura, che sicuramente andrebbero rivisti, per coltivarle in tutti i Paesi africani e tutti con uno stesso sistema? E’ lo stesso Magnani che lo scrive: “da un lato si registra una produttività elevata (che scarseggia sempre più a causa dell’aumento della popolazione mondiale e a causa proprio del cambiamento climatico n.d.a.) , dall’altro si è imposta una uniformità genetica che equivale – anche – a vulnerabilità”.
Ci troviamo di fronte ad una sorta di globalizzazione dell’agricoltura i cui effetti sugli esseri viventi si potranno conoscere a medio lungo termine.
Inoltre Dell’Acqua parla della ricerca di varietà che resistano al cambiamento. E per quelle colture che non si riescono a trovare varietà che non resistono al cambiamento sono destinate a scomparire?
Il mais e la soia sono colture che possano resistere al cambiamento climatico attraverso la ricerca di varietà idonee ma una cosa è certa. In Argentina nel 2023 si è scatenata la siccità più grave degli ultimi 60 anni e si è protratta, secondo i dati disponibili che risalgono a marzo 2023, per circa un anno “accompagnata” da otto ondate di caldo estremo a causa del riscaldamento globale che hanno causato il dimezzamento della raccolta di mais e di soia .
L’Argentina è il primo Paese al mondo per esportazione di soia e terzo esportatore al mondo di mais. Tutto ciò ha portato il Pese alla recessione con conseguente impoverimento generale del popolo colpendo soprattutto le fasce più deboli. Il PIL si è ridotto del 3%. Ma sappiamo che la riduzione del PIL di ogni singolo Paese, non colpisce tutti i ceti sociali in egual misura. Magnani scrive che “in Africa gli impatti del cambiamento climatico con i suoi effetti sulle rese agricole e un’insicurezza alimentare sono già in ascesa. Uno tra i presupposti più intuitivi è “superare” la logica dell’agricoltura di sussistenza diffondendo a sud del Sahara modelli e processi analoghi a quelli che dominano l’industria delle economie ricche”.
Il timore consiste anche nel fatto che se dovesse realizzarsi il progetto, che già si sta sperimentando nell’Africa meridionale, attraverso otto studi messi in atto dall’Unione Europea e si chiama Focus – Afric ci troveremmo di fronte ad ulteriori danni.