Nel secolo senza ideologie di ingombrante restano solo gli eredi. Legittimi o illegittimi che siano. È difficile sfuggire da questa sensazione dopo aver letto il libro di Gigi Montonato, “Almirante. L’italiano d’Italia”, edito da Eclettica edizioni. Su Giorgio Almirante, certamente, non manca una vasta letteratura. A cent’anni dalla sua nascita tanti sono stati i ricordi messi nero su bianco. Tutti inevitabilmente piegati ad una legge matematica del giudizio. Tanto più i ricordi si fanno seri tanto più sfuggono dalle intenzioni degli autori delle biografie. È, anche, il caso di questo libro. Montonato, che seriamente dispone tutti i tasselli in modo ordinato, finisce per consegnarci la figura di Almirante che non ti aspetti. Che non si aspetta.
L’Almirante che lascia un ingombro insopportabile in un momento storico quando la fine delle ideologie, quelle alle quali inevitabilmente anche lui faceva riferimento, ha determinato un vuoto culturale e politico. Perché?
Come scrive l’autore, se è vero come è vero che ad Almirante si può attribuire il merito di essere stato uno dei pochi a denunciare che il “re era nudo” mentre tutti, anche i finti oppositori con il consenso elettorale a due cifre, approfittavano della situazione. Se è vero come è vero che il progetto di revisione costituzionale “Nuova repubblica” lanciato dal Movimento sociale italiano, sotto la sua spinta, pone il segretario in assoluto vantaggio fra i papabili candidati a Padri di una Patria che invece preferisce ricordare i Padri della Costituzione che, in verità, tutti oltraggiano, sapendo di oltraggiarla. Se è vero come è vero che la denuncia della partitocrazia come il male assoluto di un Paese destinato al fallimento, in uno spazio e nel tempo quando chi lo ascoltava era distratto dall’ennesima collocazione in un consiglio di amministrazione, è una posizione d’avanguardia, in beata solitudine. Se è vero come è vero che la scelta, infine, di proporre il “presidenzialismo” come formula di necessario passaggio da una democrazia rappresentativa di facili costumi ad una democrazia diretta di sana e robusta costituzione, è un valore aggiunto distintivo di una carriera politica che decreterà Almirante fra i pionieri di quella nuova repubblica che, nonostante Berlusconi e la novità delle elezioni dirette nelle amministrazioni locali, sembra più facile a farsi che a dirsi.
È altrettanto vero che il retrogusto amaro nel leggere Montonato lascia di Almirante l’inaspettata immagine di un colpevole. Quella capitale di Almirante, è la colpa di chi non prevede l’eredità di idee e progetti. Il biografo ci ricorda vicissitudini che finiscono per fare di Almirante un distratto padre di famiglia. Quello che, di là dalle contingenze, non riesce ad imporsi perché educa i propri figli ai valori e ai principi non negoziabili. Anche e soprattutto quando resteranno senza padre. Almirante sembra non preoccuparsi delle generazioni future di dirigenti che inevitabilmente lasciati a se stessi godranno di rendita ideologica. Prende sul serio solo quelli della sua generazione. Sottovaluta il precetto pedagogico che ricorda a tutti quanto sia possibile cambiare e formare un ventenne piuttosto che un cinquantenne. Lo ricordiamo tentare di convincere suoi coetanei e declinare l’invito al dialogo della base giovanile, come nella querelle sulla proposta della pena di morte. Apre a Craxi e chiude alla generazione di Marco Tarchi. Una follia.
Almirante non semina fra i giovani e il partito e la classe dirigente – nel frattempo cresciuta – si trova a vivere, lui morto, il passaggio dalla ghettizzazione al protagonismo politico da “provinciali”. Anzi. Da artefici, più o meno consapevoli, di quel suicidio – il senno del poi conforta questo giudizio – di un’area politica.
Il racconto è impietoso nella sua ordinata cronologia. La norma statuaria che vuole che sia il Segretario nazionale del partito a dire l’ultima e decisiva parola per il Segretario del Movimento giovanile è cronaca di un funerale annunciato. L’averla applicata nel momento più delicato del movimento giovanile del Msi, quando la base interpretò democraticamente la sua vitalità politica e sociale nella persona di Tarchi, ma Almirante ripiegò su – né secondo né terzo votato – Gianfranco Fini, significò aver consumato un passaggio fascistissimo che oltraggiò il comune senso dell’appartenenza.
La storia non gli darà ragione nemmeno quando sarà costretto a sopportare i campi Hobbit. Ad oggi massima espressione del genio creativo di una parte del movimento giovanile, senza i favori del denaro e dei mezzi di comunicazione, messa a disposizione del dibattito politico intero e non di parte, che non conosce concorrenza. Addirittura Almirante sembra approfittare del drammatico evento dell’agosto 1980 per sbarazzarsi anche di chi fra i giovani del partito mostrava solo vivacità di idee e progetti. Lasciando che crescessero quelli, per dirla con Almirante, così come ricordato nella parte conclusiva del libro, “al pari degli altri”.
Possibile che Almirante non si fosse accorto che “gli altri” erano i politici dei partiti di plastica? Possibile che Almirante abbia accettato, in cuor suo, che la vittoria sulla pregiudiziale antifascista si poteva consumare sull’altare dell’onestà intellettuale e dell’integrità morale?
Insomma dalle pagine del libro emerge la questione giovanile come errore capitale di Almirante nella gestione del partito. Una questione, purtroppo, che sul più bello viene minimizzata anche da Montonato. L’autore dedica, infatti, al problema della successione soltanto due capitoletti complessivamente di appena dieci pagine. Questo racconto, ordinato delle vicende considerate – e non a torto – più importanti per capire la trasformazione del partito, finisce per perdere l’occasione per approfondire l’argomento principe. La questione giovanile. Intesa come occasione mancata per evitare che anche il Msi si trasformasse in carrierificio.
Resta il perché se il partito di Almirante si presenterà – lui morto – impreparato all’appuntamento fissato dalla storia. Accozzaglia di dirigenti dalla provinciale mentalità, guidati dal migliore dei trasformisti, animato solo dalle capacità oratorie. Altro che “al pari degli altri”. Diverranno – è di straziante attualità – “peggio degli altri”. Troppe poche le pagine per spiegare il lascito di Almirante attraverso le gesta dei suoi seguaci impegnati, raggiunto il potere, a coltivare il personale particolare piuttosto che governare il bene comune.
A fronte di questa colpa, postuma, finiscono in secondo piano le nobili questioni che hanno animato il partito – quando Almirante era deus ex machina – come il rapporto con le proprie radici storiche, l’inserimento o meno nel sistema, l’alleanza o no con il nemico culturale per eccellenza nel nome dell’anticomunismo, l’antagonismo con Rauti, con Niccolai e via dicendo, così come ampiamente ricordate dall’autore.
Nel libro manca una parte della discussione. Coitusinterruptus per chi lo legge. Pudore per chi lo ha scritto. Nel non voler dire che l’italiano d’Italia in realtà è consegnato alla storia come prigioniero dei vizi di una società, che nessun partito in Italia vuole cambiare, ma adeguarcisi. Ad Almirante la definitiva condanna a vita a luce e ombre. Alla Destra la pena di morte politica.
Gigi Montonato
ALMIRANTE, L’ITALIANO D’ITALIA
Ppgg. 284, 15.00 euro
Eclettica edizioni, Massa 2014
Cappuccio muove alcuni rilievi critici al mio “Almirante”, che in parte trovo fondati e in parte da discutere.
Preciso che non ho scritto un libro celebrativo, ma problematico, con innegabile simpatia vigilata per il personaggio. Come tutti i libri problematici lascia irrisolti i vari punti trattati. Per Cappuccio il più importante è quello della questione giovanile, legato a quello dell’eredità politica. Per me non è né il più né il meno importante, perché per un uomo politico, fuori dal suo vissuto, non c’è altra eredità che non sia l’esempio che ha lasciato vivendo e affrontando le traversie del suo tempo. Tanto vale anche per De Gasperi, Berlinguer, Moro, Craxi e per tanti altri, direi per tutti.
Che eredità avrebbe mai potuto lasciare Almirante all’Italia alla vigilia del crollo del sistema partitocratico con Tangentopoli, all’Europa e al mondo con la caduta del Muro di Berlino? Se a partire dai primi anni Novanta sono spariti tutti i partiti della cosiddetta Prima Repubblica, a maggior ragione doveva sparire il Msi.
Sono rimasti i grandi “vissuti” personali. Tra questi, a mio avviso, uno dei più importanti è quello di Almirante. Gli eventi oggi sono così rapidi che a breve distanza di tempo rendono irriconoscibili gli scenari. Oggi ci si può richiamare episodicamente a questo o a quell’uomo politico, ma cum grano salis, data la profonda diversità dei tempi e delle circostanze. Non vorrei scomodare Guicciardini e la sua “discrezione”.
Avrei dovuto dedicare più spazio alla questione dell’eredità? Sarei entrato con entrambi i piedi nel dibattito politico attuale. Non ho ritenuto di farlo, per ovvie ragioni. Il mio approccio storiografico più che politologico mi ha tenuto per ogni questione affrontata entro i limiti di una misurata trattazione.
Nessun “pudore” a dare delle risposte. Almirante – lo dico con assoluta serenità – avrebbe dovuto ascoltare la base e riconoscere in Tarchi il segretario nazionale giovanile, a prescindere che questi fosse con Rauti. Non si può dire che cosa sarebbe accaduto se avesse nominato Tarchi, semplicemente perché il fatto non sussiste, come si dice in gergo forense. Ma aver scelto Fini fu una chiara indicazione politica: procedere nell’unità e nell’equilibrio con uno che aveva doti politiche e perciò capacità in prospettiva di adattare sé e il partito a situazioni diverse. Gli intellettuali – si sa – la dote di adattarsi non ce l’hanno. Tarchi vedeva lontano? Ne sono convinto. E’ degli intellettuali vedere lontano come dei politici adattarsi. Sono convinto però che considerare Tarchi un precursore della destra di oggi, moderna ed europea, come viene detta con lessico da marketing, significa banalizzare un’esperienza politica, quella della Nuova Destra, che fu esaltante e che lasciata nel suo sviluppo politico sarebbe diventata ciò che si può solo ipotizzare, che escludo potesse essere la povera cosa che è oggi la destra in Italia. Povera, come povera è la sinistra, come povero è il cattolicesimo, come povero è il liberalismo, come povera e schizofrenica è la democrazia, non per colpa dei singoli uomini ma per il travaglio della storia che ha tritato le ideologie e i loro valori.
Ha ragione Cappuccio ad essere pessimista di fronte a quanto la destra italiana ha dimostrato in questi anni; ma Almirante non può essere preso come riferimento né per riprendere il cammino né per servirsene come distintivo per sottrarre alla concorrenza d’area qualche voto. L’eredità di Almirante è il suo essere stato. Oggi occorre chiedersi come si può essere di destra, prima ancora di attrezzarsi per il confronto politico.
Gigi Montonato