Tra le tematiche più discusse, durante questa folle e vertiginosa campagna elettorale, non poteva di certo mancare la spinosa questione dell’immigrazione. Destra e sinistra hanno incrociato le spade, senza risparmiarsi colpi bassi e attacchi frontali. Posizioni lontanissime, agli antipodi: da un lato l’etica globalista delle porte aperte, mentre dall’altro il calcolo dei numeri e il controllo dei confini. La sinistra ha rilanciato le antiche battaglie dello ius soli e dello ius scholae. La destra ha riproposto il blocco navale (ipotesi tutta da verificare…) e i decreti sicurezza. I nodi problematici sono da anni i medesimi: la distinzione tra profugo e migrante economico, il ruolo dei Paesi di partenza e di primo arrivo, la lotta allo scafismo, la tutela dei diritti umani e i cambiamenti climatici. La fuga, o l’esodo, di migliaia di persone da sud a nord, da est ad ovest, attraverso terre e mari pericolosi, alla ricerca di possibilità di vita più dignitose e favorevoli, merita il nostro rispetto, indipendentemente dalle decisioni che la politica prenderà nei prossimi mesi e anni. La sofferenza non si deride, non si sottovaluta. Semmai la si comprende nelle sue cause e conseguenze, onde porvi rimedio, evitando false retoriche del tutto inefficaci. Questo dovrebbe essere l’orizzonte d’azione e di pensiero: studiare i fenomeni, operare scelte e intraprendere politiche a lungo termine.
Esiste, tuttavia, una realtà trascurata, ignorata, lasciata a se stessa, quella che potremmo definire la piaga della “migrazione verticale”. Di che cosa si tratta? Quali zone e persone investe? Come affrontarla? Stiamo parlando del triste e progressivo spopolamento delle nostre valli. Ogni anno, uomini e donne si trovano costretti ad abbandonare le amate montagne, alla ricerca di occasioni lavorative, di possibilità formative, di servizi e opportunità, non facendovi più ritorno. Questi “migranti” non fanno notizia, non suscitano commozione e compassione, solo raramente trovano spazio e tempo nelle menti dei nostri politicanti. Semplicemente non interessano. Si giunge a questa triste conclusione pensando alle miopi politiche locali e nazionali: chiusure dei punti nascita e delle scuole, riduzione dei trasporti pubblici, mancati investimenti nelle infrastrutture, collegamenti internet del tutto inadeguati, aiuti economici insufficienti.
Chi resta spesso lo fa per mancanza di alternative, costretto a un’esistenza da pendolare o da frontaliere. Alcuni dati, tuttavia, ci raccontano di un “67% dei giovani tra i 18 e i 39 anni che nasce in montagna [e che vorrebbe] restarci” e di un “54% [che] ha fatto un’esperienza fuori, ma [che] poi è tornato tra i suoi monti” (A. Ananasso, L’altra montagna, identikit dei “nuovi montanari”: giovani, istruiti e innovatori, Repubblica, 2021), contribuendo al rilancio economico, lavorativo e culturale di territori ignorati dalla politica. La montagna vive ulteriori fatiche e sfilacciamenti: si pensi alla crisi dell’associazionismo, alla carenza di neve durante i periodi invernali, all’incapacità di determinare legami con le nuove generazioni (cfr. A. Macchiavelli e A. Pozzi, I giovani e la montagna, Open Edition Journals, 2014).
Continuare a puntare su un turismo tradizionale e consolidato, cioè quello delle seconde case, rischia di assumere i contorni di una morte a orologeria, una lenta agonia apparentemente inesorabile. Serve coraggio e competenza. Appare necessario formare amministratori locali con attaccamento e conoscenza del territorio. La politica deve sapersi muovere oltre i perimetri delle grandi città, portarsi a quote più alte dove l’aria diviene fine e maggiormente respirabile. L’Italia è una penisola circondata dalle acque e protesa verso l’alto, terra di mare e di monti, culla di storie e narrazioni intramontabili.
“Due voci possenti ha il mondo: la voce del mare e la voce della montagna”: così recitava il poeta britannico William Wordsworth, fondatore del Romanticismo e del Naturalismo inglese.
L’augurio di noi tutti è che queste voci non rimangano a lungo inascoltate da interlocutori sordi, distratti e decisamente poco lungimiranti.