Con le elezioni amministrative il quadro politico nazionale ha confermato la sostanziale stabilizzazione del Sistema Paese. Il Governo Draghi ne è l’artefice, ma non è il solo. Diciamo che i partiti di centrodestra ci hanno messo del loro, a cominciare dalla scelta, poco esaltante ed ancora meno convinta, dei candidati sindaci nelle principali città dove si è andati al voto. In questo bisogna dare ragione a Silvio Berlusconi che a seggi aperti e quindi fuori tempo massimo ha dichiarato: “I candidati sono quelli che vengono fuori dalle scelte di questo o quel leader di partito invece che da scelte democratiche, quindi forse la prossima volta bisognerà cambiare sistema”.
Le “primarie” sono all’orizzonte del centrodestra? Difficile immaginarlo vista la politica “stop and go” che segna i rapporti interni alla coalizione. L’altalena dei sondaggi continuerà. Così come il tiro alla fune tra Salvini e Meloni: una sfida che sembra però interessare poco all’elettorato nazionale. Più importante e necessario sarebbe definire strategie comuni ed iniziare a selezionare il personale politico in grado di dare gambe all’azione programmatica di una destra ancora maggioritaria nel Paese, ma percepita come protestataria più che potenzialmente di governo.
“Il destra-centro – ha scritto (su “Il Secolo XIX”) Giovanni Orsina, politologo e docente di Storia contemporanea alla Luiss – è il peggior nemico di se stesso: gli elettori gli sono piuttosto fedeli, ma lui fa ben poco per meritarsi questa fedeltà, che è tenuta in vita semmai dall’inettitudine dei suoi avversari”. Essere consapevoli dei propri limiti è il primo passo per “meritarsi” la fedeltà dei propri elettori. A cominciare dal tema ricorrente della classe dirigente. La questione è anche il segno dell’eccessiva personalizzazione dell’idea di partito, tutto giocata intorno alla figura della leader (“il partito di Giorgia”), con una scarsa articolazione dei processi decisionali, una sostanziale subordinazione dei quadri dirigenti alle decisioni di vertice, un inesistente confronto interno.
In FdI sembra avere vinto – come ha acutamente sottolineato Alessandro Campi (La destra dopo Berlusconi, “Il Mulino”, n. 515, 03/2021) – “una tendenza comune a tutte le democrazie contemporanee, all’interno delle quali il ruolo del leader ha assunto – in primis proprio sul lato della comunicazione e dell’immagine – un’assoluta centralità. Ciò che è tipico dell’esperienza italiana è tuttavia il tratto privatistico-padronale che ha finito per caratterizzare, sul modello originario dell’aziendalismo berlusconiano, anche i suoi alleati del centrodestra”.
Nel contempo a venire meno è stata l’idea del partito-comunità (il movimento), luogo d’incontro, di elaborazione, di dibattito, che appartiene alla migliore tradizione della destra italiana, a favore del partito-persona, accentratore, d’immagine, culturalmente “liquido” e quindi soggetto alle “interferenze” esterne e al fluttuare dei sondaggi.
In questa logica manca – inseriamo un ulteriore elemento di riflessione – l’Idea di società per il quale vale la pena impegnarsi e lavorare. Le ideologie sono tramontate? Può darsi, ma i principi, in grado di sostanziare l’azione politica ed informare (dare forma) ad un progetto alternativo continuano ad essere necessari. Particolarmente in questa fase storica, nella quale vanno ponendosi le basi della società che verrà. Senza pretendere che la destra abbia la sfera di cristallo, è tempo che essa fissi l’agenda di oggi e di domani.
La questione è “di valore” e di valori in campo, di quale modello di società si vuole costruire, di quali discrimini di principio si vuole porre. A partire dalla realtà, dal non esaltante rosario di numeri e di tendenze (in negativo) che disegnano un Paese fatto di povertà e di diseguaglianze (con buona pace dei principi costituzionali), di sperequazioni territoriali e generazionali, di classi dirigenti deboli e colluse con i poteri forti, con gli interessi particolari, con i piccoli interessi di bottega. Ed anche in ragione di una sovranità ritrovata in uno Stato “omnia potens, non omnia facies” ed in una politica espressione di concretezza e di autodeterminazione.
Per fare questo non bastano le statistiche, i centri studi, le analisi di mercato, pur necessarie. Ci vuole la passione, la determinazione ed una visione autenticamente ricostruttiva, che vada oltre l’eterna emergenza in cui l’Italia sembra destinata a navigare. Quella passione e quella determinazione in grado di sconfiggere il disincanto (e quindi l’astensionismo) che segna l’opinione pubblica. E’ la sfida del domani. E’ la “nostalgia dell’avvenire”, mito storico della destra italiana, declinato per l’Italia del Terzo millennio. E’ l’unica nostalgia che oggi la destra italiana può permettersi, tagliando finalmente con certo nostalgismo da operetta, tanto ridicolo quanto funzionale alle polemiche degli avversari.
Il che vuole dire anche rifiutare l’idea di una destra “inventata” da sinistra, e, di conseguenza, elaborare adeguati e credibili modelli alternativi in grado di offrire speranze realistiche (non demagogiche) agli italiani, un chiaro percorso programmatico, una classe dirigente all’altezza delle sfide che ci stanno – come Sistema Paese – dinnanzi.
Al di là degli slogan e delle facili battute ad effetto da qui può partire non solo una nuova stagione di crescita per l’Italia ma un autentico, realistico protagonismo della destra italiana, finalmente consapevole delle sue potenzialità ed insieme dei suoi limiti. Gli appuntamenti – in questa prospettiva – non mancheranno. Importante è attrezzarsi per non perderli.