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Home L'Editoriale

Andreotti, salamandra o/e camaleonte? Ai posteri..

di Marco Valle
9 Maggio 2013
in L'Editoriale
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Andreotti, salamandra o/e camaleonte? Ai posteri..
       

Andreotti, salamandra o/e camaleonte? Ai posteri..

L’assordante pianto delle prefiche si sta spegnendo. Attorno alle spoglie terrene di Giulio Andreotti — il “divo Giulio” — l’incenso dei turiboli, spanto e sprecato, si dissolve. Il grande manovratore della Prima Repubblica è partito. Per sempre. Amen.

Terminate le esequie — private e dignitose — rimangono le domande, le tante domande inevase, i molti interrogativi irrisolti. Ora che l’uomo non c’è più, forse è arrivato, finalmente, il tempo dell’analisi e dello studio — sine ira ac studio — della sua lunghissima esperienza di governo, del suo ruolo politico e delle sue tremende responsabilità. Un lavoro difficile per chi vorrà con occhi chiari e netti ricostruire i tanti aspetti chiaroscuri, gli angoli inesplorati e misteriosi di una vita pubblica straordinaria quanto umanamente normale, persin banale. Ma fa fatto. In questa democrazia senza qualità Andreotti fu osannato e ripudiato, fu giudice e imputato, fu boia e vittima, ma rimase sempre un potente. Alle volte Fouchè, altre Talleyrand, l’uomo si dimostrò più ignifugo di una salamandra e più cangiante di un camaleonte.

Congedati i necrofori rimangono i dilemmi. L’antico capo della “balena bianca” fu un buon italiano o un “vero” italiota? Fu un patriota astuto, un clericale disincantato, un disperato realista o soltanto un ometto infingardo simile a quelli descritti da Sordi, uno dei pochi veri amici del defunto, tante volte nei suoi film? Il sette volte Presidente del Consiglio  — l’epta premier — fu uno statista (più o meno illuminato) o un amministratore accorto di una pluralità d’interessi non sempre limpidi? Ma soprattutto quanto contava (se contava) l’idea d’interesse nazionale nella visione andreottiana dell’Italia? 

Con malizia, Francesco Cossiga — uno che conosceva bene l’ex senatore a vita — nella sua esplosiva intervista a Limes dell’autunno del 1995, ci avvertiva che «Andreotti coniugò bene fedeltà alla Chiesa e fedeltà allo Stato. Sarebbe molto interessante studiare la politica estera andreottiana e osservare quante volte egli tenne conto, per ragioni di convinzione personale ma anche di equilibri geopolitici, degli interessi della Chiesa». Affermazioni intriganti a cui “il divo Giulio” mai rispose — i vecchi DC preferivano felpate crudeltà private piuttosto che scontri aperti — ma che ci riportano oltre l’attualità e ci impongono qualche riflessione. Sull’Italia, sul suo passato prossimo e sul suo futuro.  Sull’interesse nazionale.

Ecco perché un ragionamento serio sull’attuale debolezza (o irrilevanza…) del nostro Paese nel contesto internazionale non può prescindere da un’analisi delle cause profonde di una crisi ormai pluridecennale.  Ecco, di nuovo e prepotentemente, Andreotti e la Democrazia Cristiana, un partito che — sempre secondo Cossiga — non seppe mai scegliere se essere fedele al Vaticano o all’Italia. Come il crudele sardo ammise a Lucio Caracciolo «confesso che non abbiamo mai avuto il coraggio di affrontare apertamente questo problema».

Su questo nodo, prioritario e irrisolvibile per il sistema DC, se ne allacciarono altri, ancor più stringenti. Per mezzo secolo — dopo il 1945 sino all’avvento della Seconda Repubblica — l’Italia è rimasta inchiodata tra la doppia fedeltà al Vaticano e all’Occidente e l’osservanza, talvolta mal sopportata ma sempre gradita politicamente e finanziariamente — della sinistra comunista (e non solo) all’Unione Sovietica. La sovranità limitata fu frutto amaro della sconfitta ma per i partiti maggiori (DC e PCI) e i loro terminali nazionali e internazionali si rivelò un ottimo affare e per gli italiani fu il volano del “boom”, il benessere dei Sessanta. 

Il defunto senatore a vita fu un abile gestore di questa partita complessa e infida: grazie ai suoi equilibrismi la Nazione — un’entità vinta, povera e marginale sino al “miracolo economico”—  si è potuta permettere un ruolo superiore alle sue potenzialità militari e politiche nel quadro mediterraneo (vedi la Libia, il Levante e la Terra Santa) e balcanico (vedi la Jugoslavia titoista) e, in sinergia con il Vaticano, si è concessa una piccola Ostpolitik tricolore verso il blocco sovietico.

Agli americani, gente pragmatica, le manovre italiane non infastidivano più di tanto. Anzi, nel quadro geopolitico della guerra fredda, la piccola Italia democristiana era (malgrado o grazie al PCI berlingueriano)  un “junior patner” talvolta discolo ma — morto Mattei — utile e spendibile. L’importante per la NATO erano le basi (e la certezza di poterle usare a proprio piacimento) e la sicurezza di una relativa stabilità interna. Un gioco pericoloso.  Non a caso, Andreotti non si oppose quando, all’indomani del rapimento di Aldo Moro, i servizi statunitensi intervennero pesantemente, esautorando de facto le strutture nazionali.  Prodi e Pisanu — gli unici sopravvissuti del circolo moroteo — sono sempre in tempo per raccontare qualcosa a riguardo…

Alla luce di questi pochi frammenti e ripercorrendo i percorsi di uomo capace di ricoprire per decenni cariche apicali — Andreotti, come sopra ricordato, fu sette volte premier, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli Esteri, 3 volte ministro delle Partecipazioni Statali, 2 volte ministro delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro dell’Interno (il più giovane della storia repubblicana), dei Beni  Culturali e delle politiche comunitarie — gli interrogativi si assommano e s’intrecciano. Per di più va ricordato che Andreotti ha sepolto tutti: De Gasperi, Pella, Gronchi, Fanfani, Segni, Moro e poi Togliatti, Nenni, Saragat, Carli, Agnelli, Craxi. E ancora, Mattei, Rocca, De Lorenzo, Borghese, Miceli, Sindona, Ambrosoli. La storia della prima Repubblica è un orto lapidario, una casa dei fantasmi. Tanti illustri funerali e troppe morti strane. Troppe ombre e tanti silenzi. Nella confusione, le linee interpretative rischiano di confondersi e sbiadire nel complottismo, nello scandalismo, nell’irrilevanza. Roba buona solo per Grillo e Travaglio.

Ad Andreotti probabilmente ciò non sarebbe spiaciuto. Come Fouchè e Talleyrand  — due camaleonti, due salamandre — sapeva che il suo mondo erano finito per sempre, perciò inutile raccontarsi…

Troppo intelligente per confondersi con i vanitosi, troppo  attento a chiudere porte e portoni pesanti alle proprie spalle, l’uomo ha sopportato con dignità (va detto) l’isolamento politico, i processi infamanti e il tradimento di tanti sodali. Probabilmente l’antico notabile democristiano attende ora nell’aldi là d’essere finalmente interpretato, compreso, assolto o condannato. Dalla Storia.

Tags: caso Morodemocrazia cristianaFrancesco CossigaGiulio AndreottiLimesLucio Caracciolo
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