Nella notte tra il 19 ed il 20 novembre scorso i cacciabombardieri F 16 ed i droni d’attacco dell’aviazione turca lanciano un’offensiva aerea sulla Siria settentrionale, colpendo centri comando, campi d’addestramento, depositi, posti di controllo delle milizie curde. È l’operazione “Pence Kilic” (spasa ad artiglio), la risposta turca all’attentato di Ankara del 13 settembre costato la vita a sei persone. Nel volgere di poche ore le autorità turche hanno individuato nelle cellule militari del PKK (il partito del Lavoratori del Kurdistan, storico avversario di Ankara) e nelle forze curdo-siriane dell’YPG i responsabili dell’attacco.
Da allora l’offensiva aerea turca si è protratta senza interruzione (almeno fino al momento in cui vengono scritte queste note, nda) seppur con alterna intensità. In più di un’occasione minacciata, l’offensiva di terra non si è finora verificata, probabilmente più per le pressioni delle potenze interessate alla partita regionale (Stati Uniti e Russia in primis) che per una mancanza di volontà turca. Di certo resta una spada di Damocle che pende sui curdi del Kurdistan siro-iracheno, considerato che anche la regione autonoma curda dell’Iraq settentrionale è stata ripetutamente colpita, non solo dai turchi. Della partita, infatti, fanno parte anche gli iraniani, alle prese con profondi travagli interni che le fazioni curde – secondo l’accusa di Teheran – starebbe alimentando, lasciando filtrare dal confine iracheno aiuti ai rivoltosi.
In questo complesso scenario accanto a queste partite che si giocano alla luce del sole ve n’è un’altra più nascosta, ma non per questo meno delicata: quella in corso tra Ankara e Damasco. Da tempo, ormai, la Turchia ha abbandonato l’idea di un cambio regime in Siria coltivata con la rivolta del 2011 e ha intessuto un discreto dialogo con il regime di Assad. L’offensiva contro i curdi potrebbe essere l’ulteriore tassello di un processo di ricostruzione dei rapporti tra i due Paesi.
Dovendo scegliere un nemico da combattere Ankara non ha esitato: meglio i curdi che Assad, con cui in fin dei conti si può sempre raggiungere un’intesa. E proprio le aree curde della Siria settentrionale potrebbero essere il “premio” per una ritrovata intesa con Ankara: territori in cambio di sicurezza, questo lo scambio che potrebbe realizzarsi anche sulla base di un vecchio accordo tra Russia, Stati Uniti e Turchia. Sulla base di questa intesa i curdi dovrebbero arretrare dal confine siro-turco fino all’autostrada M-4, affidando il controllo dei territori abbandonati alle forze di Damasco.
Passo indietro che finora i curdi non hanno voluto compiere, mentre il dialogo turco-siriano prosegue spedito. A fine dicembre si è svolto a Mosca – non a caso – un vertice tra i ministri della Difesa ed i responsabili dei servizi d’intelligence turchi e siriani. Nel corso dell’incontro sono stati discussi diversi punti di grande importanza, dalla riapertura dei posti di confine al ritorno dei rifugiati siriani in Turchia, dal recupero alla sovranità di Damasco delle regioni nord-orientali alla garanzia dell’integrità territoriale del Paese. E un vertice Erdogan – Assad sembra sempre più vicino. Insomma, la crisi nel Kurdistan potrebbe avere un “vincitore” a sorpresa, il governo di Damasco. Con buona pace dei curdi.