“I paesi membri dell’ONU hanno a disposizione a malapena dieci anni per accantonare le proprie dispute e impegnarsi in un programma di arresto alla corsa agli armamenti, di risanamento dell’ambiente, di controllo dell’esplosione demografica, orientando i propri sforzi verso la problematica dello sviluppo. In caso contrario, c’è da temere che i problemi menzionati avranno raggiunto, entro il prossimo decennio, dimensioni tali da porli al di fuori di ogni nostra capacità di controllo”.
Quelle ora citate potrebbero essere parole dell’attuale presidente della commissione europea o di un qualche esponente del Forum di Davos. Si tratta, invece, di un intervento pronunciato dal segretario generale dell’ONU U Thant nel 1969.
I potenti del mondo parlavano già allora di emergenza ambientale e di “tempo che sta per scadere”, per indicare ai leader politici la strada da seguire, prefigurando quel processo di decrescita sociale ed economica che in realtà non fu possibile avviare all’epoca. Era infatti un mondo occidentale ancora caratterizzato dalla presenza di governi nazionali forti e in gran parte indipendenti. Occorreva quindi agire sul versante istituzionale, portando avanti da un lato il processo di unificazione europea e dall’altro incrementando gradualmente la presenza e i poteri degli organismi sovranazionali. Per questa via sarebbe divenuto possibile imporre scelte e strategie di trasformazione della società, per lo più invise alla maggioranza dei cittadini, senza dover passare dalla faticosa ricerca del consenso elettorale.
Come sappiamo, l’esperimento è sostanzialmente riuscito ed oggi la maggior parte delle decisioni vengono prese da politici e burocrati in seno alle istituzioni europee, per poi essere recapitate ai Parlamenti nazionali che in genere, salvo rare eccezioni, non possono far altro se non ratificarle, magari con qualche marginale modifica.
E’ ciò che sta accadendo proprio in tema di transizione ecologica, con un insieme di misure adottate dalla commissione europea che prevedono imponenti e costosi interventi da parte degli stati, per i quali sono fissate scadenze perentorie e irrealistiche, come quella del 2035 per il blocco definitivo della produzione di auto a benzina e diesel, o quella del 2030 per l’attribuzione della classe energetica E a tutti gli edifici esistenti.
Le sopra citate parole di U Thant compaiono nella introduzione al Rapporto “The limits to growth” (letteralmente I limiti della crescita, ma tradotto in italiano col titolo I limiti dello sviluppo), che venne predisposto dai ricercatori del MIT di Boston su mandato del Club di Roma, e pubblicato nel 1972.
Il Club di Roma, tuttora attivo, fondato nel 1968 da un gruppo di imprenditori e scienziati europei e americani, tra i quali l’italiano Aurelio Peccei, si proponeva lo studio e l’approfondimento delle tematiche relative alla evoluzione dello sviluppo economico del mondo occidentale, del correlato sfruttamento delle risorse naturali da parte dell’uomo, e della necessità di una svolta in senso de-crescista e di riduzione dei tassi di incremento demografico per mantenere in equilibrio il sistema globale. In altri termini, quello che oggi si direbbe un programma per “salvare il pianeta”.
Nella parte conclusiva del volume, compare un commento a firma dei membri del Comitato esecutivo del Club, che, letto a 40 anni dal momento della sua stesura, appare del tutto illuminante circa la continuità di un filone di pensiero che oggi sembra avere permeato le classi dirigenti europei e occidentali.
“E’ nostra convinzione unanime che, al momento attuale, la situazione mondiale sia già così pericolosamente squilibrata da imporre con assoluta urgenza un tempestivo, radicale riassestamento…questo sforzo immane è la sfida che la nostra generazione deve accettare, che non può essere rimandata alla generazione successiva… e un cambiamento di indirizzo deve venire realizzato già nell’attuale decennio”.
Era dunque considerato urgente un grande intervento di trasformazione del modello di sviluppo, teso primariamente ad una drastica riduzione della produzione industriale e nel contempo a perseguire politiche di decremento di tassi di crescita della popolazione, per il raggiungimento di un ‘equilibrio globale’ compatibile con le risorse naturali disponibili sul pianeta.
Non si intende in questa sede mettere in discussione la validità o la attendibilità degli studi pubblicati nel Rapporto del MIT, che vennero peraltro elaborati da scienziati e ricercatori in possesso di titoli e competenze di alto livello. Né tantomeno si vuole negare l’esistenza, allora come oggi, delle pesanti ricadute sull’ambiente e sull’ecosistema del crescente sviluppo industriale, che negli ultimi anni si è particolarmente intensificato in paesi come Cina e India, all’epoca ancora caratterizzati da un’economia prevalentemente agricola. Anche se non si può non rilevare come le previsioni radicalmente pessimistiche del Rapporto fossero quanto meno errate sotto il profilo della tempistica.
Interessa invece sottolineare come l’esito delle ricerche del MIT sia stato posto alla base di proposte e scenari che assomigliano molto a quelli oggi delineati, con gli opportuni adeguamenti, da una organizzazione come il World Economic Forum, molto più visibile e influente di quanto fosse all’epoca il Club di Roma. Ed anche le decisioni e prese di posizione di organismi sovranazionali come la UE, l’ONU, l’OMS, rispondono in larga misura alla medesima filosofia, che trae il suo fondamento da un semplice quanto assai discutibile assunto: che le grandi scelte dell’umanità non possano essere lasciate nelle mani dei popoli, ma vadano affidate a una minoranza di menti superiori, che hanno le conoscenze e le capacità necessarie a individuare e perseguire il bene comune degli uomini e del pianeta.
Emblematico di tale orientamento filosofico e politico, un passaggio della prefazione di Peccei al Rapporto:
“Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l’intellighenzia artistica, intellettuale scientifica manageriale – la classe politica continuerà in ogni pese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali e locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e cionpertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà in evitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinchè essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno, atto ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini hanno creato nel loro mondo”.
Non è esagerato leggere in queste parole una sorta di manifesto programmatico, in parte realizzatosi negli anni successivi, di quella èlite che ha sempre guardato con sospetto e ostilità alla democrazia. Le stesse forze che, in nome del supremo interesse del pianeta, ci spiegano oggi come si debba strutturare la società per essere sostenibile e ‘resiliente’: riduzione dei consumi, rinuncia a case e automobili di proprietà, lavoro precario, disponibilità continua a spostarsi in altri paesi, nessuna prospettiva di costruire una famiglia ed avere figli.
Non si tratta di assimilare la figura di Peccei a quella di Klaus Schwab, ma di individuare in quella accolita di uomini certamente competenti e magari anche animati da ottime intenzioni la stesso humus culturale, le stesse distopiche convinzioni, lo stesso disprezzo classista per la grandi masse, che caratterizzano gli incontri annuali del WEF o di altri simili consessi. Le cui Agende prevedono sempre, invariabilmente, che il bene dell’umanità si possa realizzare solo imponendo a quelle masse sacrifici e privazioni, perseguendo politiche di riduzione dei tassi di natalità e incrementando il numero e la efficacia degli strumenti di controllo sociale sui comportamenti e perfino sulle opinioni dei cittadini. Un modello neo-totalitario da stato etico, la cui instaurazione viene ormai esplicitamente perseguita, come testimoniato da documenti e dichiarazioni ufficiali facilmente disponibili a chiunque li voglia leggere.
Addossare all’azione dell’uomo i danni della – vera o presunta – emergenza climatica è in definitiva il modo migliore, ieri come oggi, per giustificare scelte politiche che i governi nazionali, sempre più inermi e subordinati ai poteri sovranazionali, saranno obbligati ad eseguire. In nome di una palingenesi devastante che toglierà alle prossime generazioni quasi tutto ciò che i loro padri e i loro nonni avevano conquistato, con il proprio lavoro e i propri sacrifici, negli anni della crescita sociale ed economica seguita alla fine della seconda guerra mondiale.