Non molti sanno, purtroppo, che negli anni Trenta Firenze divenne il principale laboratorio artistico culturale del fascismo. Per merito principalmente di Alessandro Pavolini. Nominato nel 1929, a soli 26 anni, federale del PNF, il giovane intellettuale non solo rafforzò l’organizzazione provinciale nel segno della socialità e della cultura — Il Bargello, organo del PNF fiorentino, fu uno dei periodici più interessanti del suo tempo — ma volle rimodellare il profilo stesso della città attraverso una peculiare declinazione fascista della “fiorentinità” e una proposta di sviluppo basata sul trinomio artigianato, cultura e turismo. Un compito ambizioso che si tradusse in atti concreti: il Maggio Musicale, le rappresentazioni di 18 BL — dramma corale sulla marcia su Roma — , la reinvenzione del calcio storico (con la celebre partita in costume), la Fiera nazionale dell’artigianato.
Al tempo stesso Pavolini, ammiratore di Marinetti e Sant’Elia, promosse un vasto piano di opere pubbliche tutte modernissime, avveniristiche: la Biblioteca nazionale, l’Accademia Aereonautica alle Cascine, lo stadio di calcio intitolato a Giovanni Berta, martire fascista, la realizzazione della “Firenze -mare”, una delle prime autostrade italiane, oltre a sviluppare un imponente piano di edilizia popolare (circa 4000 nuovi vani all’anno). Ma fu la nuova stazione ferroviaria, il capolavoro di Giovanni Michelucci e del Gruppo Toscano, a porre il segno definitivo ad un’epoca.
Si trattò di un’idea dirompente, eretica: costruire una infrastruttura di penetrazione nel cuore della città antica, proprio in fronte alla medioevale chiesa di Santa Maria Novella. Alla verticalità trecentesca dell’abside ed allo slancio mistico del campanile che srotola la sua ombra sul piazzale, la nuova stazione di Firenze risponde con la sua orizzontalità. Una competizione giocata sul campo della dissonanza.
Da subito il progetto scosse e divise l’intera città e, di conseguenza, la scena intellettuale italiana. Divampò una polemica feroce, come racconta La stazione di Firenze di Giovanni Michelucci e del Gruppo Toscano, un libro ben fatto che finalmente (al netto di qualche omissione e di inutili zeli…) ricostruisce con foto e documenti l’intera vicenda.
Ricordiamo che i progetti pervenuti furono 105. La commissione esaminatrice si spaccò immediatamente tra passatisti e futuristi-modernisti (Piacentini, Romanelli e Marinetti) i quali caldeggiarono da subito il Gruppo Toscano — Giovanni Michelucci, Nello Baroni, Pier Niccolò Berardi, Italo Gamberini, Sarre Guarnieri e Leonardo Lusanna — comprendendo la portata innovativa del progetto. Non sbagliarono. Nel 1951 Frank Lloyd Wright, il maestro del Movimento Moderno, definì la stazione fiorentina “l’opera più organica nel panorama architettonico italiano”.
Tra mille strepitii, pressioni e tantissime critiche, si procedette per eliminazione, di spoglio in spoglio. Per qualche mese sembrò, con gran rabbia di Pavolini, che l’intera iniziativa finisse inghiottita in una palude di discussioni e rinvii. Alla fine decise il Duce in persona. Grazie all’intervento di Margherita Sarfatti, uno spazientito Mussolini ricevette a Roma il 10 giugno 1934 Michelucci e i suoi colleghi. Nell’incontro il capo del governo si congratulò con i giovani architetti e sottolineò come il carattere dell’opera fosse “non trasgressivo, anzi organico al Regime”. Punto e basta. Nell’ottobre 1935, Vittorio Emanuele inaugurava ufficialmente il nuovo complesso. Pavolini aveva vinto e Firenze aveva la sua stazione. Bella, funzionale e modernissima. Fascista.
La stazione di Firenze di Giovanni Michelucci e del Gruppo Toscano
di Claudia Conforti, Roberto Dulio, Marzia Marandola, Nadia Musumeci, Paola Ricco,
ElectaArchitettura, Milano 2016
144 pp.gg € 38,00