Le immagini della precipitosa e disorganizzata ritirata dall’aeroporto di Kabul di americani ed alleati hanno ricordato a molti – addetti ai lavori, ma non solo – un’altra drammatica ritirata delle forze statunitensi, quella da Saigon nel 1975. Gli elicotteri stracarichi di fuggiaschi, immortalati mentre decollano dal tetto dell’ambasciata statunitense nella capitale dell’agonizzante Vietnam del Sud, rappresentano l’immagine simbolo della fine di una sanguinosa “avventura” iniziata nei primi anni ‘60. Un’avventura cha ha visto milioni di giovani americani (550.000 i militari schierati nel 1969, anno di picco della presenza statunitense) combattere nelle città, nelle foreste e nei cieli vietnamiti. Ma come ci erano arrivati gli americani in Vietnam?
Le fasi del coinvolgimento statunitense nella penisola indocinese le ha ricostruite – con la consueta efficacia – Dominico Quirico in un articolo per La Stampa, mostrando come lo scivolamento verso un conflitto totale sia stato progressivo e soprattutto lento, tanto da renderlo quasi “naturale” agli occhi dell’opinione pubblica americana. Ma perché ricordare oggi la dinamica del coinvolgimento statunitense nella guerra vietnamita? Per un motivo ben preciso: ora a correre il rischio di ritrovarsi nelle condizioni degli Stati Uniti degli anni ’60 sono i Paesi europei, in buona parte alle prese – inconsapevolmente – con la possibile vietnamizzazione del conflitto in Ucraina.
La linea ufficiale di molti Paesi europei di pieno, duraturo ed incondizionato sostegno all’Ucraina – a tacere di dubbi e resistenze che pur si annidano all’interno di alcuni governi e cancellerie, in particolare a Parigi e Berlino – ricorda infatti molto da vicino la spensierata disinvoltura con cui l’Europa si avviò al massacro nella folle estate del 1914. Alla guerra economica – le sanzioni contro la Russia – ha fatto rapidamente seguito un più che concreto contributo alla guerra guerreggiata: la fornitura di armi. Anche in quest’ultimo caso con una progressiva accelerazione qualitativa: dalla fornitura di equipaggiamenti individuali, munizioni ed armi leggere si è passati ai missili anticarro, poi ai veicoli blindo-corazzati da trasporto, ai cannoni, ai carri armati, forse agli aerei, mentre ora è prossima la fornitura all’esercito ucraino di lanciarazzi in grado di colpire non solo le retrovie, ma anche il territorio metropolitano russo.
Fornire armi tuttavia non basta, come ben sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la materia. Le armi più moderne, infatti, per la loro complessità – non a caso oggi si parla solitamente di sistema d’arma – richiedono tempi di addestramento e capacità poco compatibili con una mobilitazione generale come quella in corso in Ucraina, mobilitazione che porta a vestire la divisa individui completamente a digiuno di addestramento militare, figurarsi se dotati di capacità avanzate come quelle richieste per l’impiego efficace dei sistemi più complessi. A ciò si sta ovviando con l’addestramento di militari ucraini in basi occidentali e, senza dubbio, grazie alla presenza in Ucraina di consiglieri militari.
Un passo ulteriore – e il presidente ucraino Zelensky potrebbe averlo già compiuto – sarebbe costituito dalla richiesta di istruttori statunitensi ed europei sul campo, ovviamente non in prima linea ma neanche troppo distanti, così da rendere operative le nuove armi nel più breve tempo possibile. Una eventualità che segnerebbe un ulteriore coinvolgimento europeo nel conflitto ucraino. E se neanche questo fosse sufficiente a fermare i russi? Si passerebbe all’invio di reparti speciali? Pochi uomini, altamente specializzati, magari da impiegare alla guida di reparti ucraini (come in qualche caso sarebbe già avvenuto).
Forniture di armi, consiglieri militari, istruttori: in Vietnam è iniziato tutto così. È finito con un muro con sopra 58.200 nomi: quelli dei caduti americani.
E’ sicura l’On. Meloni che l’invio di armi all’Ukraina corrisponda agli interessi nazionali ?
Naturalmente non ho una posizione netta ma ho molti dubbi, e sarei grato se qualcuno con una preparazione superiore possa rispondere grazie.
1. Per quanti armi sia in grado di inviare l’Italia sarà sempre marginale rispetto a Francesi, Tedeschi, Inglesi, americani ritagliandosi un ruolo minore che ci permetterà di giocare un ruolo nel dopo guerra ?
2. L’economia nazionale può permettersi una guerra energetica da sempre tallone d’Achille delle imprese italiane che da sempre hanno costi energetici più alti rispetto alla concorrenza tedesca francese ?
3. È possibile sostituire permanentemente le risorse energetiche provenienti dalla Russia ?
Gabriele, non credo di avere una preparazione superiore, ma ti rispondo che l’On. Meloni è una dilettante in politica internazionale. Dovrebbe prendere ripetizioni dal suo amico Orban, quantomeno più realista di lei. È del tutto evidente che l’invio di armi collide con l’interesse nazionale e sostituire il gas russo con quello algerino o qatariota, per non parlare di quello liquido americano è un obiettivo difficilmente raggiungibile, almeno nel breve termine. Se anche fosse possibile, il costo sarebbe altissimo. Già ora i nostri bilanci domestici ne risentono e in una situazione di salari congelati, l’inflazione
galoppante ci ridurrà alla miseria. Altro che opposizione, Giorgia è funzionale al governo, si vergogni.