Preceduta dalla rituale gazzarra dell’antifascismo da strapaese, un fenomeno figlio più dell’ignoranza che della politica, si è aperta il 29 maggio scorso al MUSA di Salò la mostra “Il culto del Duce. L’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini” curata da Giordano Bruno Guerri.
Un evento estremamente interessante che propone in due grandi sale ed in ordine cronologico un centinaio di opere, tra le quali 33 sculture e decine di xilografie, bozzetti in cartoncino, dipinti, incisioni, ceramiche ed iconografia varia di ogni tipo e materiale, quasi tutte provenienti da collezioni private e mai viste prima.
Vi ritroviamo pezzi dei più importanti autori dell’epoca, noti, meno noti o anche dimenticati: Salvatore Monaco, Giacomo Balla, Fortunato Longo, Ernesto Michaelles (Thayath), Mino Rosso, Gerardo Dottori, Albino Manca, Enrico Prampolini, Mino Delle Site, Mario Sironi, persino Antonio Ligabue e molti altri; oltre ad una nutrita serie di opere anonime ma non per questo meno significative.
La mostra propone un interessante percorso attraverso lo sviluppo della iconografia mussoliniana nel ventennio che permette di osservare, da un punto di vista alquanto originale, sia il carattere storico-politico del regime che la vivacità del suo ambiente culturale.
Il mito del capo è sempre appartenuto ai regimi totalitari, precedenti, contemporanei e successivi al Fascismo.
Basti pensare ai coevi Hitler e Stalin ed alle rispettive impressionanti iconografie o ai più recenti Fidel Castro, Che Guevara, divenuto una vera icona dei nostri tempi, Mao Zedong per finire al caso, oramai fuori dal tempo, del “caro leader” della Corea del Nord.
Il caso dell’iconografia mussoliniana, tuttavia, pur avendo ovviamente punti di contatto con i precedenti rappresenta in realtà un caso a sé, originale e difficilmente assimilabile, nella sostanza, agli altri citati.
L’utilizzo dell’immagine del Duce come strumento di costruzione del consenso non rispondeva solamente ad esigenze di retorica celebrativa del regime, ma era parte integrante di un preciso programma politico.
Come ha evidenziato Renzo De Felice nella sua “Intervista sul Fascismo”, tra gli obiettivi del Fascismo vi era anche quello di completare il processo storico iniziato con il Risorgimento e fare, finalmente, degli Italiani un grande popolo unito, coeso ed omogeneo.
Imponendo modelli di comportamento uniformi e parole d’ordine uguali per tutti, esaltando il mito collettivo di Roma antica, valorizzando il patrimonio comune della cultura italiana ed il suo primato secolare, celebrando le grandi tradizioni popolari il Fascismo si proponeva di raggiungere il fondamentale obiettivo, sino ad allora mancato, indicato da Massimo d’Azeglio all’indomani dell’Unità: fare gli Italiani dopo aver fatto l’Italia.
Il mito del Duce e la sua iconografia si inseriscono precisamente a questo punto: non solo celebrazione del capo politico, ma soprattutto sublimazione di un simbolo che doveva sintetizzare e riassumere in sé tutti i migliori caratteri dell’uomo nuovo Italiano, un modello nel quale tutto il popolo doveva riconoscersi ed al quale tutto il popolo doveva tendere.
Non a caso, come illustra perfettamente la mostra, è a partire dagli anni ’30 che la celebrazione iconografica della figura di Mussolini assume i caratteri più originali ed interessanti.
Consolidato il suo potere, sconfitti e dispersi gli avversari, gettate le fondamenta istituzionali del regime, raggiunto il Concordato con la Chiesa, assorbite, tutto sommato brillantemente, le conseguenze della crisi del 1929, il fascismo si pone, all’inizio degli anni ’30, il problema di “riprendere la marcia”, fare il vero salto di qualità nella trasformazione e modernizzazione della Nazione, modificando profondamente gli Italiani, i loro comportamenti, la società, le città, lo Stato e, in definitiva, la storia nazionale.
“La Rivoluzione continua” è la parola d’ordine che compare ovunque dopo che Mussolini nei discorsi di celebrazione del decennale della Marcia su Roma ha indicato esplicitamente i nuovi obiettivi del regime: “Quale dunque è la parola per il nuovo decennio verso il quale noi andiamo incontro con l’animo dei vent’anni? La parola è questa: camminare, costruire e, se necessario, combattere e vincere.” (Torino 23/10/1932) piegando definitivamente “gli illusi, i retrogradi, i conservatori, i reazionari, i quali si erano illusi, con dei mucchi di parole inutili, di fermare il moto e la valanga di un popolo” (Milano 25/10/1932).
E’ in questo contesto che la figura idealizzata di Mussolini assume un ruolo centrale, una funzione fondamentale nella vita degli Italiani diventando l’elemento chiave di quella che è stata definita “fabbrica del consenso”.
Da quel momento il culto del Duce, declinato in forme espressive diversissime, diventerà parte integrante ed onnipresente del panorama italiano: nelle case, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nelle strade e nelle piazze delle città modernizzate dall’architettura razionalista o addirittura costruite ex novo; sotto forma di coreografia nei campi Dux o di bosco di pini come sul Monte Giano o di edificio pubblico come il palazzo “M” di Littoria.
Così il percorso della mostra si snoda attraverso l’evoluzione politica della figura del Duce, che nel 1927 (“Per la battaglia del grano” di Romeo Pazzini) viene ancora ritratto come un notabile in camicia bianca, cravatta e marsina, abiti che abbandonerà molto presto in favore di uniformi, camicie nere, toghe da imperatore romano e altre tenute di varia natura: legislatore, filosofo classico, guerriero, come il Mussolini a cavallo che sguaina la spada dell’islam di Albino Manca, e persino personaggio storico, come nella bella xilografia di Carlo Guarnieri dove Mussolini viene ritratto come Machiavelli.
Fino all’apoteosi della grande tela di Alberto Beltrame “Verso la meta” nella quale un Mussolini trionfante sui nemici, con in pugno un Fascio Littorio dorato, viene ritratto completamente nudo, nella rappresentazione visiva della famosa frase “nudi alla meta”, da lui coniata nel 1923.
Non mancano pezzi insoliti e curiosi: un Mussolini in versione cow boy al rodeo che doma un cavallo imbizzarrito facendo anche il saluto romano mentre le caricature di Stati Uniti, Inghilterra e Francia lo guardano con timore; il volto di Mussolini trasfigurato in un Fascio Littorio; il bronzetto, anche questo di Mussolini a cavallo, di Antonio Ligabue; un gigantesco Mussolini di cemento ricoperto di lamine d’ottone.
Il periodo di cui parliamo fu anche un momento di grande fermento culturale: nel 1933 Mario Sironi, presente al MUSA con un piccolo ritratto stilizzato del Duce, pubblica il “Manifesto della pittura murale” sottoscritto anche da Campigli, Carrà e Funi; nello stesso anno si tiene a Milano la V Triennale ovvero, secondo la dizione ufficiale, l’“Esposizione triennale internazionale delle arti decorative ed industriali moderne e dell’architettura moderna”; compaiono nelle città le prime realizzazioni dell’arte monumentale novecentista (proprio non lontano dal MUSA, a Brescia, si trova Piazza Vittoria, del 1932, uno dei migliori esempi del genere, purtroppo ancora mutilata da ignoranza e pregiudizio) e “Il Primato” di Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale, anima un dibattito culturale di altissimo livello.
La mostra riflette molto efficacemente questo scenario, presentando esempi significativi di tutte le diverse tendenze che caratterizzavano le arti figurative del momento.
Dai busti ispirati alla riscoperta del classicismo latino, che rappresentavano Mussolini come un imperatore romano, a quelli di gusto quasi espressionista ispirati alla lezione di Adolfo Wildt (autore di uno dei più significativi – artisticamente – busti del Duce, purtroppo distrutto nel 1945), influenzata dalla Secessione e dall’Art Nouveau, proseguendo con il ritratto futurista di Ernesto Michaelles (Thayath), quello astratto di Enrico Prampolini, la rappresentazione di aeropittura di Mino Delle Site e le molte raffigurazioni in stile novecentista.
Fino ad arrivare all’avanguardia ed alla sperimentazione: la fantascientifica e modernissima “Espressione immaginativa del Duce” della pittrice futurista Olga Biglieri (Barbara) ovvero una rappresentazione visionaria e simbolica del volto di Mussolini realizzata in marmo bianco o il geniale “Profilo continuo del Duce” di Renato Bertelli (1933), in terracotta dipinta di nero, che riproduce un profilo di Mussolini a 360 gradi, identico da qualunque parte lo si guardi, e che, accoppiato ad una fonte di luce, proietta l’immagine ingigantita del volto del Duce. Una vera e propria istallazione, diremmo noi oggi.
O anche, infine, il manifesto per il plebiscito del 1934: un attualissimo fotomontaggio con sovrapposizione di immagini che, visto con gli occhi di oggi, non può non richiamare la Pop Art americana.
La mostra è aperta sino al 28 maggio 2017.
Per chi volesse recarsi a Salò ricordiamo che nel museo c’è anche un percorso multimediale permanente dedicato alla RSI, che il Comune di Salò già da qualche anno ha creato un itinerario turistico, con appositi cartelli esplicativi, che unisce i luoghi e gli edifici della RSI presenti nella cittadina e, soprattutto, che a pochissimi chilometri di distanza c’è il Vittoriale degli Italiani di Gabriele d’Annunzio (diretto, come il MUSA, da G.B. Guerri) probabilmente il complemento ideale di una visita a “Il culto del Duce”.
Villa Feltrinelli a Gargnano, residenza di Mussolini, e Villa Fiordaliso a Gardone, residenza della Petacci, sono invece diventati hotel di lusso con ristoranti pluristellati e non sono visitabili se non dai clienti. Pare, però, che a Villa Feltrinelli lo studio dal quale Mussolini governava la RSI sia rimasto quasi intatto.