Nel suo intervento “pirotecnico” alla direzione nazionale del Partito Democratico, Matteo Renzi, per giustificare la sua decisione di modificare il famoso articolo 18 (e successive modificazioni) della legge n. 300 del 1970, meglio nota come “Statuto dei Lavoratori”, ha fatto un paragone “telefonico” dicendo che a quell’epoca non tutte le famiglie avevano il telefono attaccato al muro (cosa che non ci sembra vero, almeno il “duplex” lo avevano), poi sono venuti quelli da tavolo, poi le schede telefoniche, poi i primi telefoni portatili pesanti e con scarsa durata, poi i cellulari satellitari modificati di anno in anno fino al recentissimo “I-Phone 6”. Quindi, logica conclusione: siamo arretrati nel difendere una vecchia normativa, fuori tempo e magari anche “fuori moda”. Avrebbe anche potuto aggiungere che prima si inviavano le lettere/espresso, poi vennero la telescrivente ed i fax, adesso s’inviano e/mail e sms….
Mentre ha fatto bene Massimo D’Alema a ricordare due cose, ossia che quell’articolo era stato modificato due anni fa e che comunque non è buona legislazione di un Paese quella che viene cambiata in continuazione, noi vorremmo riprendere quel paragone di Renzi ed adattarlo proprio alla materia cui si riferiva, il lavoro.
E’ vero, sono passati quarantaquattro anni: ma cosa è veramente accaduto in questi anni, al di là dei telefoni? E’ accaduto di tutto. C’erano le grandi industrie di tipo “verticale”, con decine di migliaia di lavoratori: adesso ci sono le “reti”, costituite da uno snello apparato produttivo del “core business” (prodotto principale) servito da decine di piccole imprese produttrici di un solo frammento del prodotto finito e quindi monofornitrici: tutte imprese cui non si applica l’art. 18. C’era il sistema delle partecipazioni statali, con grandi imprese strategiche per l’economia nazionale, autosufficienti ed anche esportatrici: adesso, l’Italia deve praticamente acquistare tutti i principali prodotti indispensabili alla vita civile (compresi molti prodotti agroalimentari) dall’estero o da filiali italiane di imprese estere, e proprio l’esempio dei telefonini è il più emblematico. C’era la Lira, che consentiva operazioni di svalutazioni competitive con le altre monete, e la Banca d’Italia (almeno fino al 1981) che era tenuta ad acquistare i titoli di Stato invenduti emettendo carta moneta, ossia senza far pagare al Tesoro interessi passivi. E lo stesso debito pubblico era posseduto per l’80% da risparmiatori privati od investitori istituzionali, italiani. C’erano i dazi doganali, che imponevano un sovrapprezzo ad una serie di prodotti provenienti dall’estero che erano fabbricati anche in Italia, per evitare concorrenze e dumping.
Ma, per tornare più specificatamente al lavoro, nel 1970 non c’era la globalizzazione! Il lavoro italiano operava in un sistema omogeneo a livello europeo in cui le condizioni di lavoro in termini di diritto, sicurezza, ambiente, retribuzione erano più o meno equivalenti, ed equivalenti erano i costi di produzione, anzi l’Italia spesso era avvantaggiata dalla maggiore qualità della manodopera. Oggi, con l’abolizione dei dazi doganali, con la fondazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), con l’entrata massiccia e senza alcun vincolo della Cina, dell’India e di altri Paesi emergenti nel commercio italiano ed europeo, i prodotti italiani – e quindi il lavoro – sono stati annullati.
Come si può competere con un Paese che ha una riserva immensa di manodopera a bassissimo prezzo, al limite dello schiavismo; che non rispetta alcun principio di tutela ambientale; che non applica misure di sicurezza sanitaria sui prodotti che vende; che si avvale di una rete smisurata ed incontrollata di piccoli rivenditori, di strada e di sgabuzzino, che vendono al dettaglio i loro prodotti; che falsifica brevetti e marchi di qualità nazionali; che in altre parole ci manda, per dirla con gli economisti liberali, “fuori mercato”? Come può esistere un libero mercato del lavoro italiano, se un’accorta propaganda di stile “orwelliano” ci ha convinti che dobbiamo accogliere chiunque voglia venire in Italia senza permesso, allo scopo occultato di creare un “esercito” di lavoratori di riserva a bassissimo costo, secondo la regola del più classico ed ottocentesco sistema di crumiraggio?
Non si può competere, quindi, ed il lavoro italiano connesso si perde, con o senza l’articolo 18. Oggi l’imprenditore italiano non ha il problema di poter licenziare o meno un “lavativo”, come scrive la stampa di regime, perché lo può sempre fare al di là di quello che qualcuno pensa senza conoscere (ed anche in questo D’Alema ha ragione!) la realtà dei fatti. No, ha il problema di poter continuare a lavorare e produrre lui stesso, altro che il singolo lavoratore!
Questo è successo nei “44 anni”, non solo le modifiche nei sistemi di comunicare a voce e per iscritto.
Ma allora, come s’interviene per tutelare prima e creare dopo, il lavoro? La prima e fondamentale azione dovrebbe essere quella d’intervenire pesantemente ed ultimativamente sia nell’Unione Europea sia come Stato presso gli organismi internazionali preposti al commercio affinché sia proibito qualsiasi “dumping” : si può intervenire con il ripristino dei dazi doganali, si può intervenire rivedendo ed annullando tanti accordi e convenzioni internazionali, si può intervenire denunciando all’Onu ed al suo organo dipendente OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) le violazioni delle direttive internazionali in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, diritti individuali e collettivi (l’organizzazione sindacale in quei Paesi è inesistente, così come lo sono i contratti collettivi che stabiliscono retribuzioni minime), e tanto altro ancora.
A questo proposito Renzi ha dichiarato che “vi è un mercato di 800 milioni di consumatori da conquistare”: come, se non produciamo più niente? E non sarà più logico pensare che siano gli 800 milioni – che non sono solo consumatori, ma anche produttori – a fagocitare i nostri scarsi sessanta milioni?
Si potrebbe anche intervenire impedendo alle multinazionali estere di fare acquisti a casa nostra per poi chiudere gli stabilimenti dopo averli spolpati o riducendoli a servitori delle loro imprese. Faccio due soli esempi al riguardo: le ex-Acciaierie Speciali di Terni, industria gioiello italiana delle partecipazioni statali, finita alla “Thyssen Krupp” tedesca (quella del rogo di Torino) ed in corso di alienazione progressiva; la “Nuova Pignone” di Firenze, anch’essa già appartenente alle partecipazioni statali, specializzata a livello mondiale nella costruzione di impiantistica speciale per la ricerca e sfruttamento del petrolio, che è stata venduta all’americana “General Electric” e funziona benissimo, ma non è più italiana, e l’Eni – che la possedeva – deve pagare gli utili agli Usa….
Renzi ha parlato d’innovazione e di ricerca: ma lo sa quanto spende il governo italiano, tramite le università e gli istituti di ricerca, in questo settore? Lo sa che gli incentivi alle imprese che innovano sono irrisori? Lo sa in che stato materiale ed educativo sono le facoltà scientifiche? Lo sa la crisi permanente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, istituzione creata dal fascismo?
Insomma, a noi sembra che Renzi abbia fatto un confronto tra l’Italia del 2014 e quella del 1970 come se l’Italia fosse isolata dal resto del mondo, e come se il resto del mondo non abbia influito sull’Italia.
E questa influenza ha ben altre finalità che quella di licenziare un lavoratore più o meno indisciplinato: la vera finalità è espellere l’Italia dal rango delle nazioni più industrializzate, posizione che fra l’altro è quella che ci ha fatto ammettere alle riunioni del “Gruppo degli Otto”, rendendola semplice acquirente di prodotti elaborati e costruiti all’estero, e riducendola ad un bel giardino meta di turisti consentendole di creare beni di moda di prestigio (ferme restando le contraffazioni).
Insomma, per riprendere il lavoro in Italia e tutelarlo veramente occorre una “politica industriale” di tipo certamente moderna ed innovativa, ma anche con una volontà “imperiale” di confrontarsi con gli altri e difendere, con le unghie e con i denti, le nostre qualità produttive che, proprio nei “44 anni” passati, hanno dato lustro e prestigio alla nostra Nazione.