Inesorabile come tutte le scadenze è in arrivo il 23 giugno, ovvero la data fatidica del referendum consultivo col quale i sudditi di Sua Maestà Britannica decideranno se restare o meno nell’Unione Europea. Forse sarà il giorno del Brexit, come è stato chiamato l’evento che rischia di sconvolgere (finalmente) il farraginoso e illogico assetto dell’Unione Europea.
La grande finanza globalizzata, naturalmente, non si è fatta pregare e ha subito trasformato quella che, nonostante le apparenze, è una questione eminentemente politica nella ennesima occasione di stratosferici guadagni speculativi.
Supportata da sondaggi non si sa quanto reali e quanto strumentali che, dipingendo una situazione di sostanziale parità se non di vantaggio della Brexit, alimentano uno stato di grande incertezza, la speculazione internazionale scommettendo al ribasso sull’uscita della Gran Bretagna ha colpito duramente i mercati finanziari e bruciato così centinaia di miliardi di capitalizzazione nelle diverse borse mondiali: ben 172 in Europa solo il 14 giugno, 130 il venerdì precedente.
In compenso i Bund tedeschi sono scesi sotto la parità ed è ricomparso il tormentone dello spread, in decisa risalita, ad ulteriore dimostrazione del fatto che in questa Europa chi ha la supremazia guadagna sempre e comunque e chi è succube ci rimette sempre e comunque, qualunque cosa accada. In realtà nel dorato mondo della finanza, dove tutti credono di vivere nell’unico e migliore dei mondi possibili, gli adoratori del dio mercato sono convinti che alla fine nessuno avrà il coraggio di mettere in discussione l’attuale assetto economico finanziario europeo.
Dal punto di vista del pensiero unico liberista solo un pazzo potrebbe compromettere il futuro della più importante piazza finanziaria europea solamente per una questione di sovranità nazionale, considerata problema banale e irrilevante. Per questo le grandi centrali dei poteri finanziari se pubblicamente alimentano la paura del Brexit per massimizzare i guadagni, privatamente valutano con aria di sufficienza un’ipotesi che considerano remota se non addirittura fantasiosa.
Ma è veramente così?
Abituata ad una valutazione monodimensionale e settoriale dei problemi, la grande finanza di sicuro non conosce il pensiero di Alain de Benoist, che ha da tempo segnalato gli effetti della potenziale minaccia per i popoli europei dei tre grandi fenomeni di omologazione che ne stanno mettendo in pericolo cultura e identità: globalizzazione, immigrazione e perdita di sovranità.
Men che meno, ovviamente, nel mondo finanziario si leggono la Rivolta di Evola o le opere di Spengler, che il tipico finanziere medio, se avesse tempo e voglia di leggere, considererebbe probabilmente episodi di una saga fantasy. Eppure se osservato da questo punto di vista il Brexit è un’ipotesi tutt’altro che remota e le sue conseguenze molto serie. Non è certo un caso che un problema del genere sia scoppiato nel Regno Unito, una nazione da sempre gelosissima della sua sovranità nazionale e per questo da sempre euroscettica.
Entrata nell’allora CEE solo nel 1973, nonostante nel 1946 Winston Churchill fosse stato uno dei primi ad invocare la creazione degli “Stati Uniti d’Europa”, le prime serie frizioni erano arrivate già nel 1979, con il famoso discorso della signora Thatcher che chiedeva indietro i suoi soldi (“our money back or out”) inaugurando una lunga serie di rinegoziazioni delle condizioni di permanenza della Gran Bretagna nell’UE (che contribuisce al bilancio di Bruxelles con 8,5 miliardi di euro contro gli oltre 14 dell’Italia, a parità di popolazione), l’ultima delle quali, estremamente favorevole per il governo di Sua Maestà, definita lo scorso febbraio proprio nel tentativo di scongiurare il Brexit.
Il fatto è che la decisione non verrà presa da un elite di azzimati finanzieri nel chiuso di eleganti uffici della City, ma da milioni di sudditi britannici che guadagnano 2 o 3.000 volte meno dei banchieri della City e che di questi problemi discutono in pub fumosi bevendo pinte di birra rossa.
L’inglese medio, il John Bull delle caricature, che dei grandi flussi di danaro che attraversano l’isola vede solo le briciole e che, in compenso, si sente impoverito e minacciato da crisi economica ed immigrazione non sembra essere impressionato più di tanto dalle apocalittiche conseguenze che, secondo le stime in circolazione, seguirebbero il Brexit: riduzione del PIL fino a 5 punti, che potrebbero diventare anche 9 calcolando i cd effetti dinamici, cioè la mancata crescita; costi aggiuntivi di 100 miliardi di Sterline per le imprese; incremento della disoccupazione di almeno 3 punti percentuali; deprezzamento della sterlina del 20/30%; perdita di contributi per la ricerca per almeno un miliardo di sterline; ostacoli al commercio estero; ridimensionamento della piattaforma finanziaria della City, ecc. ecc.
Tutte considerazioni (di cui in realtà è difficile stimare la reale attendibilità) che non sembrano turbare più di tanto i sudditi della Regina, poco propensi a cedere alle anonime ed ottuse burocrazie europee, oramai succubi degli interessi tedeschi, la propria sovranità e che non capiscono perché, dopo secoli, la loro vita debba essere regolata (male) da Bruxelles (e Berlino) invece che dal venerato e sovrano Parlamento di Londra. E’ un bel paradosso che proprio la patria del liberismo e culla dell’organizzazione pragmatica dello Stato finisca per trovarsi nel bel mezzo dell’antitesi di Carl Schmitt, chiamata a decidere se difendere quel che resta della propria gemeindschaft o annacquarla definitivamente nell’omologazione alla gesellschaft degli interessi economici europei.
Una situazione affrontata con approssimazione e superficialità dal Primo Ministro David Cameron, che pensando di neutralizzare definitivamente le (per lui) fastidiose spinte “populiste” dei suoi concittadini ha escogitato una prova di forza che, come nella fiaba dell’apprendista stregone, gli si sta decisamente rivoltando contro e che potrebbe travolgerlo (una lezione che il boy scout nostrano non sembra aver recepito). In realtà la principale conseguenza del Brexit non sarebbe economica ma politica.
L’uscita della Gran Bretagna dall’UE romperebbe definitivamente un tabù, dimostrando che la scelta a favore dell’UE non è affatto irreversibile e che esistono alternative praticabili all’attuale (fallimentare) costruzione europea. Ciò potrebbe innescare il cosiddetto “spill over effect”, ovvero un effetto domino che potrebbe portare altri stati membri a seguire l’esempio inglese e mettere in crisi il pachiderma burocratico dell’Unione.
Un’ipotesi interessante che, se osservata con una prospettiva storica, rivela singolari analogie col passato: in fondo anche questa volta, come nel 1940, gli Inglesi potrebbero essere gli unici ad opporsi all’egemonia tedesca sul continente europeo, dove ci troviamo alle prese con un sistema economico sorprendentemente simile (ovviamente in un contesto e con finalità assolutamente diverse) alla Europaische Wirtschaftgesellschaft (Società Economica Europea), vale a dire la sistemazione dell’economia europea concepita da Walter Funk e Hermann Goering nel 1941 per il dopoguerra in caso di vittoria del Reich.
Una moneta unica parametrata al valore del Reichsmark, una Banca Centrale Europea con sede a Vienna destinata a disciplinare i flussi monetari, libero scambio delle merci all’interno dell’area omogenea, senza dazi nè tariffe, un’economia dominante, ovviamente quella del Reich, un primo cerchio di economie compatibili e coordinate (Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) e un secondo cerchio di economie vassalle (gli altri stati europei alleati o sconfitti) destinate ad alimentare e arricchire le economie centrali favorite dalla moneta unica e dal livello omogeneo di prezzi, redditi e salari.
Impossibile non cogliere analogie con la situazione attuale nella quale, fortunatamente, l’egemonia tedesca si esercita vendendo Audi o BMW e non scatenando i panzer. Purtroppo nella misera Italietta odierna non vedremo mai niente di simile al Brexit.
Non tanto e non solo per via dell’art. 75 della Costituzione, ma soprattutto per la scarsissima importanza che l’Italiano medio attribuisce alla tutela degli interessi e della sovranità nazionali. Le elite politiche, economiche ed intellettuali, dal canto loro, preferiscono appaltare a oligarchie e poteri stranieri la sovranità nazionale credendo di poter importare da fuori la soluzione dei nostri problemi strutturali.
Si illudono, ingenuamente, che sia questo il modo migliore di perseguire i propri interessi, ma basterebbe guardare la storia italica, che si ripete immutabile da secoli, per capire che gli stranieri qui ci vengono esclusivamente per fare i propri interessi a scapito, ovviamente, dei nostri.
Post Scriptum
Proprio mentre i bookmakers, che in Gran Bretagna sono molto più attendibili e molto più seguiti di qualsiasi sondaggio, stavano abbassando drasticamente le quote del Brexit, viene brutalmente assassinata la deputata laburista Jo Cox, grande attivista dello schieramento favorevole alla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea.
L’assassino, tale Thomas Mair, è il solito fanatico, o forse squilibrato, appassionato di armi, pare antisemita, simpatizzante per l’apartheid sudafricano, per movimenti razzisti vari, per i neonazisti americani e chi più ne ha più ne metta. La grande finanza, naturalmente, reagisce a modo suo cioè con consistenti rialzi delle borse, indicando chiaramente a chi giova un episodio del genere, arrivato proprio nel momento più adatto per mischiare le carte. Da noi si parlerebbe di strategia della tensione, ma notoriamente gli Inglesi sono pragmatici e non amano la dietrologia…