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Home Arte&Artisti

Aspettando “Lei mi parla ancora”, due parole con Pupi Avati

di Tommaso de Brabant
7 Febbraio 2021
in Arte&Artisti, Home
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Aspettando “Lei mi parla ancora”, due parole con Pupi Avati
       

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Buongiorno Maestro Avati! Ci sono notizie riguardo il film su Dante?

«Qui alla DueA Films al momento siamo sia preoccupati che ottimisti. La sceneggiatura è pronta, il protagonista e narratore – Sergio Castellitto nei panni di Boccaccio, che di Dante fu biografo – è stato raggiunto da mesi, ormai c’è l’accordo anche con RAI Cinema… persino col Ministero dei Beni Culturali: l’intoppo è soltanto legato a cavilli burocratici».

Quindi le probabilità che si realizzi sono cresciute?

«Sì, ma come sai, oltre a questi intoppi burocratici c’è un grande problema coi tempi. L’anno dantesco è già cominciato, e sarebbe bello presentare il film a Ravenna in metà settembre, per il settecentesimo anniversario dalla morte del Vate. Combatterò per farcela».

Si avvicina intanto la prima televisiva di “Lei mi parla ancora”.

«Lunedì 8, guardalo! Sono felice d’aver recuperato il rapporto con Pozzetto. Che tra l’altro si è rivelato un grandissimo attore drammatico».

Questo è anche l’anno del venticinquesimo di “L’arcano incantatore”…

«Fra le mie creazioni, una di quelle che preferisco».

Giovedì pomeriggio, Pupi Avati ha inviato a Claudio Lotito, presidente della Società Sportiva Lazio, una lettera di scuse: nel romanzo “L’archivio del Diavolo”, edito da Solferino alla fine del settembre scorso, alcuni personaggi deridono, in sua assenza, Furio Momenté (funzionario ministeriale già spaesato protagonista di “Il Signor Diavolo”) con tanto di riferimenti offensivi alla sua fede calcistica: appunto, la Lazio.

“Intendi Furio?” domandò Giovanola dagli uffici del ministro.

“Un laziale di m***a”, asserì Maiorana dal secondo, suscitando l’approvazione dei colleghi…

“… L’hanno richiamato, ha fatto una figura del c***” disse Loi.

“Non sarebbe un laziale…” altra risata collettiva.

Qualche buontempone ha scoperto dopo mesi la pagina del romanzo, ed è riuscito a scandalizzarsi. Ad Avati – bolognese di nascita ma tifoso del Milan, già autore di un film (“Ultimo minuto”, 1987) incentrato su di una squadra identificabile col Lanerossi Vicenza (dalla divisa biancorossa, e protagonista d’un breve momento di gloria a fine anni ’70) – è impossibile attribuire un’intenzione offensiva: il passaggio incriminato è una scenetta di colore, uno scambio di volgarità tra impiegati, come ne succedono ogni giorno. Gli sfottò calcistici spesso sono volgari, e quando in ballo ci sono rivalità accese come quelle tra romanisti e laziali, il tono peggiora: è ovvio che l’intenzione dell’Avati romanziere sia stata innanzitutto, ricreare l’atmosfera e il linguaggio d’un ambiente popolare nell’Italia degli anni ’50; poi, offrire al lettore un attimo di leggerezza, in un romanzo cupo sino al parossismo.

Altrettanto ovvio è che il punto di vista d’un personaggio non esprime per forza di cose quello dello scrittore: dettaglio che sfugge agli ultrà da stadio, raramente dediti alla lettura. Una volta almeno erano dei fegatacci: ora, in piena era del politicamente corretto, si destabilizzano per un nulla persino loro…

Lo scrivente, che pur essendo lombardo tifa per la Roma (e perciò, ammette, ha trovato simpatica la pagina del romanzo), ha appena letto il fumetto di Giancarlo Berardi “Julia – Milano calibro 7.65”: in una scena, tifosi esagitati dell’Inter preparano striscioni e cori con cui insultare i romanisti al loro arrivo a San Siro. Il sottoscritto non ha avuto la minima reazione. Lo sdegno andrebbe rivolto a chi va allo stadio per insultare e aggredire, non a registi, romanzieri, fumettisti che raffigurano queste dinamiche. Secondo gli ultrà della Lazio (quelli stando ai quali un narcotrafficante ucciso in un regolamento di conti era non un criminale, ma un martire) invece sarebbe cosa buona e giusta fare gli scalmanati per tifo calcistico, e per contro disdicevole descrivere in un romanzo le stupidaggini che ci si dice da tifosi.

Tornando al romanzo.

Laguna veneta, anni ’50: le peripezie di don Stefano Nascetti, ragazzo coltissimo che ha scelto la tonaca dopo un trauma adolescenziale, si intrecciano col mistero di Furio Momenté, archivista del Ministero di Grazia e Giustizia inviato da Roma a Lio Piccolo per evitare alla Democrazia Cristiana la cattiva pubblicità che le deriverebbe da un omicidio istigato, parrebbe, da un sagrestano fanatico.

Momenté (del quale Avati ha narrato le disgrazie già nel romanzo, e quindi nel film, “Il Signor Diavolo”) sembra sparito fra le brume venete, ma a Roma c’è chi giurerebbe che stia continuando a lavorare in via Arenula – dove un usciere sociopatico sta intanto scrivendo un romanzo sulla sepoltura di Gogol.

Nascetti ha rinunciato a una brillante carriera nella curia di Venezia per sfuggire al rancore del laidissimo questore Carlo Saintjust; perseguitato a causa del suicidio della repellente Silvana Ory, che a Venezia si appostava al suo confessionale, a Lio Piccolo don Stefano si trova stregato da un’incantevole ragazza di nome… Silvana Ory.

I capitoli si alternano alle illusioni ipnagogiche (allucinazioni tra il sonno e la veglia) raccolte da un settimanale per conto della Società Freniatrica.

“Romanzo del genere Gotico Maggiore”: seguito immediato di “Il Signor Diavolo” (romanzo pubblicato da Guanda nel 2018, film prodotto da DueA e Rai nel 2019), “L’archivio del Diavolo” è il secondo capitolo della saga, letteraria e cinematografica, che Pupi Avati sta realizzando sul Maligno.

Un preludio si trovava già in “Il ragazzo in soffitta” (pubblicato anch’esso da Guanda, nel 2015): come “Il Signor Diavolo”, storia d’amicizia adolescenziale minacciata dal male (e dagli adulti). L’elemento orrorifico, dilagante in “Il Signor Diavolo” (piccola, enorme pietra miliare del cinema horror), era però assente da “Il ragazzo in soffitta”, intreccio di follie.

Anche in “L’archivio del Diavolo”, Avati si avventura nei meandri più cupi della pazzia: lo fa da grande studioso di psichiatria, e da romanziere colto. Crudele, esageratamente squallido, volgare, “L’archivio del Diavolo” è, per quasi tutte le sue pagine, infernale: ma il momento puramente horror (e molto magico) è uno solo, racchiuso nelle ultimissime pagine – davvero terrorizzanti. Il resto è un viaggio oltre il termine nella notte, in una Venezia sporchissima, putrescente (come la Roma dei primi capitoli di “Il Signor Diavolo”: la bruttissima vita coniugale di Momenté, completamente elisa nel film).

Come dice Prospero in “La tempesta” di Shakespeare: “Vuoto è l’inferno, i demoni sono tutti qui” – in questa Italia non ancora risollevata dalla guerra, in questa sfilata di repressioni e perversioni sessuali, corporeità tanto brutte quanto esibite, questori corrotti assistiti da perfetti idioti, magistrati mentecatti, famiglie spezzate.

In confronto a “L’archivio del Diavolo”, “La casa dalle finestre che ridono” (una vetta della cultura horror) sembra una réclame del Mulino Bianco – nella quale pretendono di vivere certi tifosi troppo permalosi.

Pupi Avati

“L’archivio del Diavolo”

RCS – Solferino Libri, Milano 2020

Pgg. 272, 16 euro

“Lei mi parla ancora”:

prima assoluta su Sky, lunedì 8 febbraio 2021 in prima serata;

poi disponibile su Sky Cinema e in streaming su NowTV.

Tags: cinemaPupi Avati
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