Nel corso della manifestazione di “Atreju” che si è svolta a Roma presso l’Isola Tiberina, il 18 settembre vi è stata un’interessante “tavola rotonda” (presieduta da Federico Mollicone, responsabile della comunicazione di “Fratelli d’Italia”) sul libro “La scintilla” di Franco Cardini e Sergio Valzania che tratta delle cause remote ed inaspettate della prima guerra mondiale. Al dibattito erano presenti, oltre all’autore, anche il giornalista Renato Besana ed il sen. Franco Marini, presidente dell’apposito Comitato Storico istituito dalla Presidenza del Consiglio per commemorare il centenario della “Grande Guerra”. La commemorazione si articolerà, oltre che in convegni storici e culturali, anche nelle visite e nel riassetto dei cimiteri militari e dei sacrari per i Caduti.
La tesi degli autori del libro è sorprendente rispetto a quello che abbiamo sempre letto ed imparato a scuola: certamente l’attentato di Serajevo, il successivo “ultimatum” respinto dalla Serbia, insieme a manovre di forze occulte che volevano abbattere per motivi ideologici l’Impero Austro-Ungarico sono state cause reali ed evidenti dello scoppio della “Grande Guerra”. Però essi sostengono invece che, oltre a ciò, la causa remota della guerra, la “scintilla” appunto, fu la spedizione militare in Libia nel 1911.
E’ una tesi che nel libro è ben argomentata, e che ha la sua base nelle linee di tendenza permanenti della geopolitica, materia ignorata per decenni che tuttavia in questi ultimi anni sta tornando all’attenzione degli studiosi e della grande stampa d’informazione.
Ciò merita un approfondimento, e dobbiamo iniziare dalla ricostruzione della situazione politico-geografica dell’epoca.
Nel primo decennio del secolo scorso, in Europa si fronteggiavano due blocchi di Potenze: da un lato vi era la “Triplice Alleanza”, costituita da Austria, Germania ed Italia; dall’altro vi era l’”Intesa”, costituita da Francia, Inghilterra e Russia. La Germania allora era in fortissima espansione economica ed industriale, ed anche l’Italia, superati gli choc dell’unificazione e dello scontro sociale culminati nelle cannonate sul popolo milanese nel 1898, si stava avviando verso un forte sviluppo economico.
Ma oltre a questi blocchi vi era una terza presenza, l’Impero Ottomano, la quale però era nella fase finale della sua espansione e in costante disgregazione tanto da essere definita “la grande malata d’Europa”. La Turchia, come si chiama oggi, vedeva perdere progressivamente pezzi di territorio nel Nordafrica e nei Balcani, dove Serbi, Greci e Bulgari provocavano continui scontri armati per espandersi.
In questo quadro, anche l’impresa italiana in Libia contribuì ad indebolire l’Impero Ottomano, ma non fu solo questo. La presenza italiana in quel territorio rappresentò in quel momento un cuneo tra la parte occidentale del Nordafrica controllato dalla Francia (Marocco, Algeria e Tunisia) e la parte orientale controllata dall’Inghilterra in Egitto, nel Sudan e con una tendenza verso l’attuale Irak.
Il problema non era tanto o solo l’Italia, ma il fatto che un Paese membro della “Triplice” avesse messo un piede nel Nordafrica, minacciando indirettamente i territori vicini. In effetti, la Germania e l’Austria, nonostante la loro potenza politica, militare ed economica, si sentivano circondate: in Europa continentale ad ovest con la Francia e l’Inghilterra, dominatrice dei mari; ad est, dalla Russia la quale estendeva la sua influenza a sud, nei Balcani, assistendo con favore alla crescita della Serbia e della Bulgaria, i cui popoli erano di etnia slava e di religione ortodossa come la Russia. Nel Mediterraneo, poi, Francia ed Inghilterra dominavano.
Cosicché tutta questa instabilità, aggravata ed accelerata dall’impresa libica, esplose – come, appunto, una “scintilla” che da fuoco alle polveri – con l’attentato di Serajevo. L’Austria, già preoccupata della crescita al suo fianco sud di Stati – sostenuti dalla Russia e favoriti dal declino dell’Impero Ottomano – temeva che se avesse ceduto alla Serbia avrebbe perso del tutto la sua influenza in un’area strategica, quale quella dei Balcani.
In questo quadro, c’è la posizione dell’Italia. Ed a questo proposito dobbiamo esprimere alcune considerazioni “controcorrente”. L’Italia, anche per effetto delle pressioni nazionalistiche antiaustriache, evitò di sostenere la “Triplice Alleanza” nello scontro che si stava delineando, ed accettò di avviare trattative con l’”Intesa”. Trattative che si rivelarono poi ingannevoli: dinanzi alle promesse di avere, a vittoria conseguita, le province cosiddette “irredente” di Trento e Trieste (ma non dell’Istria) l’Italia rinunciò di fatto a quello che avrebbe potuto conseguire con la vittoria della “Triplice” con il suo apporto. Avrebbe potuto ottenere, ad esempio, Malta e la Tunisia, dove esisteva una numerosa immigrazione italiana; avrebbe potuto ottenere una influenza determinante in Egitto, dove non solo esisteva una presenza italiana ma dove i tecnici italiani avevano contribuito alla costruzione del Canale di Suez tanto che alla sua inaugurazione al Cairo fu rappresentata l’opera “Aida” di Giuseppe Verdi, dedicata all’Egitto; ed altro ancora.
Invece, l’”Intesa”, mentre offriva quel poco all’Italia (forse inferiore al “parecchio” di cui parlava il presidente del consiglio Giovanni Giolitti offerto dall’Austria su pressioni della Germania) stava preparando l’espansione della Serbia ai nostri confini orientali con la costituzione della Jugoslavia.
Insomma, la prima guerra mondiale – nata dal disfacimento dell’Impero Ottomano e dalle manovre della Francia e dell’Inghilterra – stava preparando le basi per la successiva seconda guerra mondiale, che aveva, per l’Italia, gli stessi obiettivi della prima non soddisfatti dall’Intesa franco-inglese, tanto da suscitare il tema della “vittoria mutilata”. E non solo: gli effetti perversi della sistemazione post-bellica, attuata a Versailles da Francia ed Inghilterra con la guida del presidente americano Tommaso Wilson, ignorante (come tutti i suoi successori) di politica estera e di geopolitica mediterranea, continuano a verificarsi ancor oggi, con lo Stato islamico in Irak, con la questione palestinese, con il caos libico, con lo sfascio dell’Irak.
Forse, con il senno di poi, aveva ragione chi aveva scritto che “abbiamo vinto una guerra che non dovevamo fare, ed abbiamo perso una guerra che invece dovevamo fare e vincere”!