Carlo Verdelli, fino quasi alla conclusione dello scorso mese di aprile direttore di “Repubblica”, ha pubblicato sul “Corriere della Sera” un editoriale preoccupato e ricco di sensate osservazioni sul futuro fosco e drammatico della scuola “dimenticata” e con “i bambini [e non solo loro] all’ultimo banco. L’editorialista parte dall’immagine dell’iceberg fantasma [la scuola], contro cui il governo porta a schiantarsi l’Italia. Ironizza con grandi fondamenti poi sulle “pezze”, con le quali Conte cerca di arginare “con improbabili Stati generali”, invece che nella sede naturale, costituzionale, il Parlamento, la crisi provocata dalla “furia demolitrice del Covid”. Ritorna poi sul tema portante, osservando che “l’iceberg Scuola avanza verso la nave Italia a una velocità spaventosa, nella colpevole incuranza generale. E’ l’unico settore per cui non è stato ancora previsto nemmeno un protocollo per la ripartenza. Otto milioni di studenti aspettano da inizio marzo una qualche prospettiva per il loro ritorno in classe”.
A Verdelli non sfugge che “altrove hanno avuto chiaro da subito qual era la priorità sociale. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, ma persino in Paesi più fragili, come Grecia e Portogallo, chi dalle materne e chi anche solo per concludere i cicli, hanno tentato di cucire la ferita aperta dalla pandemia mettendo per primi i bambini. Noi stiamo facendo il contrario, e non da oggi”. Occupiamo, da nessuno insidiati, l’ultimo posto per spesa pubblica destinata all’istruzione.
Il giornalista milanese, prima di accennare alla esiguità del numero dei laureati, all’alto tasso di abbandono scolastico, al livello penoso degli stipendi del personale, denunzia che “la loro somma è lo zero che la nostra classe dirigente [quella attualmente al potere tocca il massimo delle profondità oceaniche, di presunzione e in parallelo di inadeguatezza, vedi l’esempio calzante della Azzolina, terrificante ed agghiacciante e per di più tremendamente antipatica], il nostro governo, le nostre istituzioni stanno pensando di investire [a parole e senza uno straccio di progetto] sul futuro degli italiani che hanno più futuro davanti. Ed è una ipoteca di cui dovranno rendere conto, senza alibi da pandemia che possa giustificare una visione così miope, una sottrazione di apprendimento e socialità a danno delle generazioni che hanno tutti i diritti di poter vivere in un’Italia attenta anche ai loro, di diritti”.
Una piccola osservazione, ma non marginale, innegabilmente di fondo sulla tanto spesso dilagante retorica giovanilistica: le generazioni emergenti debbono godere di diritti ma in parallelo debbono essere a conoscenza dei doveri umani, civili e sociali da osservare e rispettare.
Nella denunzia tanto circostanziata non poteva sfuggire la condizione “in gran parte vecchia e ammalorata” delle strutture.
L’editorialista ritorna sulla metafora, da non considerare “esagerata” e invita a rileggere numeri probanti. In chiusura utilizza una frase di Calamandrei, uno dei tanti “padri della Patria”, capaci di predicare ma non a seminare, non il solo e non il primo ad accorgersi della essenzialità della scuola, da far vivere su basi morali portanti e non velleitarie.