Ricorrono gli ottant’anni dalla nascita di Lucio Dalla (1943-2012), cantautore bolognese. Intervistato da “La Stampa”, Pupi Avati, cineasta e romanziere suo concittadino, che con Dalla ha condiviso gli esordi da jazzista (di buon auspicio per il cantante, meno per il regista), il set (Dalla compare in uno dei primi film di Avati, il grottesco “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”; più di recente comporrà le colonne sonore per due tra i film meno riusciti dell’amico, “Gli amici del bar Margherita” e “Il cuore grande delle ragazze”) e una lunga amicizia, ha avuto l’infelice pensata di raccontare all’intervistatrice, Fulvia Caprara, particolari della vita privata del clarinettista di via D’Azeglio. L’amico Lucio, da ragazzino, sarebbe stato vivacemente eterosessuale: “assatanato per le ragazze”, così dice Avati. La madre però, angustiata per la scarsa crescita in altezza del pargolo, lo avrebbe sottoposto a una cura ormonale: che oltre a non funzionare, lo rese calvo, irsuto (e fin qui siano nell’ambito del plausibile) e omosessuale. Tesi, va detto, abbastanza bislacca. Avati non è un medico, non pretende di esserlo, e ha una gran passione per le storie bizzarre; passione che stavolta lo ha portato a essere inopportuno.
L’uscita del grande regista andrebbe derubricata a “sciocchezza”, “gaffe”, “uscita di cattivo gusto”; non fosse che riguarda (oltre alla vita privata d’un defunto) l’omosessualità, che negli anni in cui viviamo è un argomento intoccabile, al quale avvicinarsi soltanto con la massima deferenza. Ma c’è dell’altro: prima dello scorso Natale (ricorrenza durante la quale si svolge la partita di poker d’uno dei suoi film migliori, “Regalo di Natale”), Pupi Avati – che, senza mai dichiarare una precisa collocazione politica, non ha mai fatto mistero di essere molto lontano dalla sinistra – è stato ospite ad Atreju, la kermesse di Fratelli d’Italia; intervistato, ha dichiarato la sua simpatia (non tanto una vicinanza politica, una scelta ideologica, quanto un sentimento favorevole) per Giorgia Meloni.
Ha insomma invitato la stampa italiana a metterlo nel mirino. “Repubblica” e compagnia cantante lo ha atteso al varco; così, al primo inciampo del regista – la sopracitata sciocchezza sull’orientamento sessuale d’un amico – è scattata la raffica di articoli di condanna. A quella di Ernesto Assante, comparso sul quotidiano di Scalfari immediatamente dopo l’intervista al giornale torinese, ha fatto immediatamente seguito una sequenza di invettive, sulle testate più ligie al politicamente corretto.
A livello concreto, nulla di grave: Pupi Avati non si è fermato neanche dopo l’attacco cardiaco che lo ha colpito sul set lo scorso novembre, ha perciò poco da temere per una campagna stampa istantanea; tanto più che non è nuovo a subire aggressioni verbali per aver involontariamente offeso qualcuno – si pensi all’assurdo scandalo suscitato due anni fa dal suo romanzo “L’archivio del diavolo”: mesi dopo l’uscita, qualche tifoso della Lazio si accorse che, in una pagina, i colleghi d’un personaggio lo dileggiano anche in quanto laziale – Avati (bolognese e tifoso del Milan) non stava esprimendo una sua antipatia, stava solo riportando un siparietto che a Roma (e dovunque vi siano forti rivalità calcistiche) è prassi quotidiana. Siamo però, come ha scritto Guia Soncini, nell’era della suscettibilità: per offendere qualcuno non è più nemmeno necessario attaccarlo, basta menzionarlo; e quando questo qualcuno si sarà offeso, scatenerà una ritorsione. Avati avrebbe dovuto ripensare a quando ha offeso i tifosi della Lazio non ingiuriandoli, ma soltanto riportando che quelli della Roma scambiano con loro degli insulti; e a tale ricordo, avrebbe dovuto sommare che al giorno d’oggi l’omosessualità è un argomento sacro.
Indelicata sul piano amicale, infondata su quello medico, insostenibile su quello scientifico: la sua uscita non è comunque una dichiarazione omofobica. Non ha deprecato che Dalla fosse “diventato” omosessuale, ha solo raccontato quello che, secondo una sua (grottesca) tesi sarebbe stato il motivo alla base di questa “trasformazione”. Una dichiarazione sciocca, non una manifestazione di odio.
Quella dell’intemerata di Avati è però una storia di odio. L’odio col quale tutta una fazione manovra, da oltre mezzo secolo, l’opinione pubblica italiana, spingendola contro taluni bersagli (da Craxi a Berlusconi, sino a un regista che si è permesso di esprimere simpatia per la nuova leader che ha sconfitto la sinistra); e l’odio col quale, a livello globale, il pensiero unico (o politicamente corretto, o globalismo, o iperliberismo…) persegue chi non si uniforma a esso.
Lo scorso autunno, nella globalizzatissima Milano, ho assistito alla presentazione d’un libro, il cui curatore si scagliò contro il “maschio bianco cisgender” (privilegiato e responsabile di tutti i mali che affliggono l’umanità): che è proprio l’oggetto dell’odio della Generazione Z, e di quei colossi dell’informazione, dello spettacolo e di internet (da Netflix ad Amazon, passando per l’Huffington Post) che tanto potentemente la condizionano. Se la memoria storica non m’inganna, individuare una categoria, attribuirle delle colpe e additarla all’odio collettivo è una pratica frequente tra i totalitarismi. Nulla di strano: il politicamente corretto è la più completa forma di totalitarismo che si sia visto – sinora.
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