Una foto, scattata storta, ritrae la Commissione Araba presente a Versailles, nel 1919, a partecipare alla “pace che fu la fine d’ogni pace”: i trattati che seguirono alla Prima Guerra Mondiale. Davanti a tutti, una figura allampanata: l’emiro Feisal. Dietro di lui, tre ufficiali arabi, assieme a un francese (il capitano Pisani) e un minuscolo inglese dal copricapo beduino: Thomas Edward Lawrence, agente dei servizi segreti, prestato durante il conflitto all’esercito con funzione di cartografo, poi nominato colonnello in seguito alla sua guida della rivolta araba (segue un moro, mai identificato).
Gli arabi arrivarono, nel gennaio ’19, a Parigi come forza vincitrice: ma erano, da almeno tre anni, già esclusi dalla spartizione del successo alleato nel conflitto.

Lawrence, che quando si mise a capo della loro rivolta anti-ottomana era già al corrente di questo tradimento anticipato, sperò fino all’ultimo di poter contare sul prestigio che quella folle impresa (che lo consegnerà alla storia militare e a quella del cinema come Lawrence d’Arabia) gli aveva conferito, per ottenere comunque che si mantenesse la parola data.
I britannici avevano infatti promesso alle tribù arabe (che riconoscevano il loro capo in Hussein, sceriffo della Mecca e del quale Feisal era il secondogenito) il riconoscimento d’una grande nazione araba, che coprisse quasi tutto il Medio Oriente. La loro rivolta contro il giogo dell’Impero Ottomano era preziosa per i britannici: avrebbe distratto alcune truppe tedesche (alleati dei turchi, e interessati alla creazione d’una ciclopica ferrovia che da Berlino portasse a Baghdad) dai fronti europei, e sventate le minacce germaniche sull’Egitto (colonia d’importanza vitale, perché garantiva il controllo del canale di Suez, e con esso l’afflusso in Europa di truppe e merci da India, Australia e Nuova Zelanda).
Thomas Edward Lawrence, archeologo laureato cum lode a Oxford e protegé dei professori responsabili dei grandi scavi in Siria e Iraq, arrivò in Egitto appunto come cartografo. Dopo essersi fatto detestare con la sua saccenza da quei militari che non riteneva al suo stesso livello intellettuale (insomma: da quasi tutti quelli che incontrava), fu spedito – in parte come punizione, in parte perché dimostrasse la validità delle sue proposte – a trattare con i figli di Hussein (il quale era invece inviso ai diplomatici alleati, per la sua ristrettezza di vedute). Considerando, come lui stesso scrive nel paragrafo introduttivo del Libro I del suo racconto: “Abdulla troppo intelligente, Ali troppo puro, Zeid troppo freddo”. Si invaghì di Feisal, e con lui guidò un’accozzaglia di tribù beduine, partendo da Medina e giungendo fino a Damasco (a metà del percorso, la colonna araba fu affiancata da quella dei regolari egiziani guidati dal colossale generale Allenby, uno dei pochissimi uomini che abbia mai avuto un rapporto di stima reciproca con Lawrence).

Quando, il 1° ottobre 1918, un Lawrence ridotto all’ombra di se stesso da attacchi depressivi, insofferenza per la rozzezza dei beduini, frustrazione per i molti scacchi subiti durante l’avanzata, caldo e fame e sete, ferite e forse uno stupro, arrivò in Damasco, si trovò di fronte all’evidenza: nell’albergo in cui gli ufficiali anglo-inglesi stavano celebrando la vittoria sui turchi, gli fu confermato che si sarebbe tenuto fede non alle promesse con cui gli sceicchi erano stati istigati alla ribellione, ma al trattato Sykes-Picot.
Stilato tra il 1915 e il 1916 da un militare inglese, Mark Sykes, e da un diplomatico francese, F.G. Picot, questo trattato segreto (con l’assenso di Russia e Italia) stabiliva la divisione dei territori extra-turchi dell’Impero Ottomano (dandone per scontata la sconfitta – si trattava in effetti della nazione più debole tra quelle impegnate nel conflitto) in zona A e B (alla Russia era coinvolta una piccola parte, ma la Rivoluzione bolscevica, oltre a rendere noto lo scandaloso trattato, la trarrà fuori dalla ripartizione), rendendo quindi quel che sarebbe rimasto alla mai realizzata “nazione araba” un mero protettorato.
Alla Francia: Siria e Libano; al Regno Unito: Mesopotamia (da cui sarà poi ritagliato il contentino per Feisal: il Regno d’Iraq) e Palestina. Questa suddivisione, tracciata con squadra e compasso (“no pun intended”… o forse sì) sulla mappa senza tener conto delle tribù, porterà a quel sanguinoso disastro che da un secolo è il Medio Oriente.
Tornato in Europa con al seguito Lowell Thomas, il giornalista statunitense che avrebbe fatto di lui una celebrità (sino a trasformarlo nel fenomeno da baraccone dei “travelogue”, una tournée sul modello di quelle di Buffalo Bill, in cui Lawrence – in un costume arabo che, a insaputa del pubblico, era una veste nuziale femminile – narrava le sue gesta arabe), Lawrence suscitò subito uno scandalo (non accontentandosi di scrivere articoli per il Times, nei quali dava chiaramente ai diplomatici alleati dei traditori; e ancora nel capitolo introduttivo dei “Sette Pilastri” insulterà sir Henry MacMahon e il generale Wingate): invitato a palazzo da re Giorgio V, che lo aspettava con delle medaglie, gli rispose che se le tenesse.
Convinse quindi Feisal a partecipare ai negoziati di Versailles; ma, come scriverà David Friomkin, il solo contributo di Lawrence alla causa araba resterà l’invenzione della “guerra per bande” (argomentata da lui stesso nel brevissimo saggio “Guerriglia”); insomma, i suoi sforzi diplomatici resteranno vani – nemmeno riuscire a far dialogare Feisal con Chaim Weizmann (leader sionista e futuro primo presidente israeliano), o corteggiare i diplomatici statunitensi, faranno ottenere alla delegazione araba qualcosa che si avvicinasse alla grande nazione araba unitaria promessa dagli alleati. Speranza resa tanto più improbabile dall’ostilità delle banche europee (per la Deutsche Bank il conflitto non finì proprio con una sconfitta…), dai petrolieri, e dagli ufficiali francesi con i quali Lawrence (a volte per sue idiosincrasie, a volte per il loro rifiuto – dettato dalla vicinanza alla causa sionista – di credere alla possibilità della ribellione araba) si era da sempre posto in conflitto.
In questa prima metà del 1919 (i trattati si svolsero da gennaio a giugno, e il colonnello vi assistette per intero, deriso da molti per la sua ostinazione nell’indossare il turbante) la consolazione di Thomas Edward Lawrence fu quindi realizzare il “Text I”, la prima e più breve (250mila parole; quella – comunque lunghissima – tuttora in commercio è una mediazione fra tale versione e il “Text II”, che superava le 400mila) bozza del suo scritto maggiore: I Sette Pilastri della Saggezza (come scrive suo fratello Arnold Walter Lawrence, rinomato storico dell’arte classica, nella prefazione: il titolo, citazione dal libro biblico dei Proverbi, era stato pensato da “Ned” – questo il soprannome in famiglia del colonnello – per un suo libro su sette città, poi non pubblicato perché “immaturo”).
Traduciamo (le edizioni italiane tuttora in catalogo non riportano apparati) la nota dell’Autore, riportata dal fratello Arnod:

“Scrissi i libri 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 10 [la versione finale dei Sette Pilastri consta di 10 libri, divisi in un totale di 122 capitoli, più quello introduttivo, e la celebre poesia “per S.A.” in epigrafe] a Parigi, tra il febbraio e il giugno 1919. L’introduzione fu scritta nel viaggio da Parigi all’Egitto, nel luglio e agosto 1919. Dopo di che, in Inghilterra, scrissi il Libro I: poi persi tutto, tranne l’Introduzione e bozze per i Libri 9 e 10 alla Reading Station, durante un cambio di treni, intorno al Natale 1919 [altrove Lawrence colloca lo smarrimento in autunno]. Questo “Text I”, se completato, sarebbe constato di 250mila parole – poco meno del “Sette Pilastri” che ho stampato privatamente, su prenotazione. Le mie note del tempo di guerra, sulle quali era in gran parte basato, furono distrutte al completamento d’ogni sezione; soltanto tre persone ne hanno letto buona parte, prima che le smarrissi”.
Un mese dopo, a Londra, Lawrence cominciò a scrivere quel che rammentava del “Text I”, tenendo l’Introduzione originale, ancora reperibile. Racconta lo stesso Autore: “La storia che segue fu dapprima scritta a Parigi, durante la Conferenza di Pace, traendo spunto dalle note scritte in ogni giorno di marcia, rinforzate con i rapporti spediti ai miei superiori al Cairo. Dopo di che, nell’autunno 1919, persi questa prima stesura con parte delle annotazioni. Mi sembrava storicamente necessario riportare il racconto della rivolta, dato che forse nessuno tranne me, nell’esercito di Feisal, pensò di scrivere quel che provavamo, quel che speravamo, quel che tentavamo. Fu così che, con gran travaglio, nell’inverno fra il 1919 e il 1920, a Londra, lo riscrissi, dai miei ricordi e dalle note superstiti”
Nel bellissimo capitolo introduttivo, che assieme alla micidiale poesia “per S.A.” (“Ti amavo, perciò trascinai queste maree d’uomini nelle mie mani…”) e allo splendido paragrafo conclusivo (“Damasco non mi era sembrata un fodero per la mia spada…”) fa dei “Sette Pilastri” una pietra miliare della letteratura mondiale, Lawrence si schernisce: non ci sono rivelazioni choccanti, il libro è pieno di cose piccole e triviali… ma aggredisce subito il lettore col celeberrimo e bellissimo “Tutti gli uomini sognano. Ma non allo stesso modo…”, e nel capitolo I rivendica la grandezza delle sofferenze che ha passato con i compagni: “Per anni abbiamo vissuto in qualunque modo, in promiscuità, nel deserto spoglio e sotto un cielo indifferente”.
Nel capitolo III invece proclama la grandezza della sua stessa impresa: “Erano un popolo fatto d’impeti […] instabili come l’acqua, e come l’acqua forse alla fine avrebbero prevalso. Dall’alba della vita, in onde successive, si infrangevano contro le coste della carne […] Sollevai una di queste onde – e non la minore – e la sospinsi innanzi con il soffio di un’idea, sino a farle raggiungere la sua cresta, rovesciandosi e infrangendosi su Damasco. Il riflusso di quell’onda, respinta dalla resistenza di ciò che ha investito, fornirà la materia per l’onda successiva quando, nella pienezza dei tempi, il mare sarà ancora una volta sollevato”.
Un secolo fa, Thomas Edward Lawrence cominciava a scrivere (finirà nel 1926) uno dei libri più belli di sempre. “I Sette Pilastri della Saggezza” non ha solo un grande valore letterario (fermo restando che, di valore storiografico, non ne ha moltissimo, essendo infarcito di inesattezze, volte un po’ a screditare chi lo contraddiceva, un po’ a sminuire illegittimamente il Leone di Medina, Fakhredinn Pascià, invitto generale turco, e un po’ anche ad accrescere i propri meriti): è un manifesto romantico, è un inno alla grandezza, alla ricerca della gloria, alla ribellione, alla follia. È espressione di titanismo, inseguimento di orizzonti sempre più vasti, superamento dei limiti; professione di fede cavalleresca.
Uno dei lasciti più belli di Thomas Edward Lawrence “d’Arabia”, e del suo capolavoro, “I Sette Pilastri della Saggezza”, è il paragrafo immediatamente precedente a quello sui sognatori (“gli uomini che sognano a occhi aperti sono pericolosi, perché realizzano i loro miraggi: questo è ciò che ho fatto”); il poetico rammarico per aver visto le proprie imprese vanificate dai maneggi e dai capricci di chi rifiuta di vedere oltre. “Eravamo esaltati da idee inesprimibili e favolose, ma per le quali si doveva combattere. Abbiamo vissuto molte vite in quelle battaglie vorticose, senza mai risparmiarci: ma quando ci riuscimmo, all’alba del nuovo mondo, tornarono gli uomini vecchi a prendersi la nostra vittoria, per ricostituire il loro mondo precedente. La giovinezza poteva vincere, ma non aveva imparato a conservare: ed era miseramente debole nei confronti dell’età matura. Farfugliammo d’aver lottato per un cielo e una terra nuovi; ci ringraziarono cortesemente, e conclusero i loro trattati di pace”.
Un lamento che si rinnova continuamente, ogni volta che un movimento si piega alla ristrettezza di vedute, ogni volta che dei militanti si rinchiudono negli slogan, ogni volta che dei ragazzi mettono da parte la ribellione e si rannicchiano nel tifo, nel sostegno programmatico e sistematico di capetti senza idee. Come abbiamo recentissimamente scritto, Thomas Edward Lawrence era tra quei riferimenti con i quali il Fronte della Gioventù (del quale, per motivi anagrafici, chi scrive non è stato parte) arricchì un suo ideale “pantheon”. Non per una sua precisa adesione politica (per molti che siano i motivi per collocarlo a destra, per nulla suo malgrado), ma perché era un grande eroe romantico. Tanto più lontano da quella burocrazia e da quell’obbedienza nella quale i soliti guardiani del recinto rinchiudono (allora come adesso) l’immaginazione, lo slancio, la visione. Un esempio che, con tutte le sue follie, era una bellissima ispirazione per una destra giovanile che rifiutava di essere addomesticata dai quei controllori prosaici, pragmatici, ottusi che ora invece la tengono avvinta.
Lawrence era senz’altro squilibrato, masochista, megalomane, doppiogiochista. Ma ha lasciato, con la sua vita e con i suoi libri, un’epica da sogno. Il suo nome è rimasto sinonimo d’avventura: Hugo Pratt, in una breve avventura di Corto Maltese (“In nome di Allah misericordioso e compassionevole”), lo evoca appena e già il fumetto si trova nel registro della grande avventura. Lawrence d’Arabia è la sfida impossibile realizzata, l’insubordinazione, il genio individuale, la grande causa, l’aristocrazia dello spirito, il cuore oltre l’ostacolo e lo sguardo oltre l’orizzonte.
100 anni fa, il colonnello Lawrence cominciava a lasciarci la testimonianza della sua avventura, e del tradimento di un’impresa. Sconfitto e avvilito, lasciava un messaggio di speranza: il miraggio d’un ordine nuovo. Se non lo si poteva realizzare, lo si poteva almeno raccontare.
“Il trucco, mr. Potter, è fingere che non faccia male”.

Thomas Edward Lawrence, Seven Pillars of Wisdom. A Triumph
Anchor Books, New York 1991
672 pgg., 19,95 $
Thomas Edward Lawrence, I Sette Pilastri della Saggezza
Trad. it. di Simona Pisauri
Edizioni Theoria, Milano 2017
840 pgg., 20 euro