Venti di guerra soffiano al confine tra Azerbaijan e Armenia. Dopo settimane di tensione, culminate con pesanti scontri a fuoco in territorio armeno (morti e feriti da ambo le parti), il recente accumulo di forze militari azere verso il confine occidentale fa presagire la volontà di un’operazione su larga scala dell’esercito di Baku. E i ripetuti voli cargo con trasporto di armi arrivati in Azerbaigian da Israele e Turchia sono un’ulteriore prova della direzione presa dal regime di Ilham Aliyev.
Tutto sullo sfondo della crisi umanitaria nell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), territorio da quasi nove mesi inaccessibile in entrata e uscita a causa di un blocco illegale attuato da Baku (che non ha rispettato la Dichiarazione tripartita del 2020 mediata dalla Russia che prevedeva il libero transito di merci e persone attraverso il corridoio di Lachin, unica strada di collegamento con l’Armenia e il mondo esterno). Qui, andando contro due risoluzioni della Corte internazionale di giustizia (febbraio e giugno 2023), l’Azerbaijan non permette da mesi l’approdo di alcun aiuto umanitario, costringendo la popolazione armena a condizioni di vita sempre più drammatiche. Emblematiche sono le immagini di decine di camion con cibo e altri beni primari (da Armenia e Francia) fermi da oltre un mese a ridosso del corridoio di Lachin, a cui le forze armate azere non hanno ancora permesso il passaggio.
Adesso, una nuova guerra incombe sui 120mila armeni dell’Artsakh – a cui Aliyev ha proposto la soluzione “pacifica” della cittadinanza azera – e sull’Armenia intera. Il suo territorio sovrano, già occupato per oltre 150 km quadrati dalle forze azere, è minacciato da movimenti militari su quasi tutta la linea di confine. Fu così che iniziò la guerra dei 44 giorni del 2020, quando Baku conquistò più della metà del Nagorno Karabakh. Uno scenario pronto a ripetersi, ma forse non subito. Anche perché in Armenia, nelle prossime settimane, sono previste esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti (per la preparazione delle missioni internazionali dei peacekeepers). Un annuncio che potrebbe solo rimandare la paventata invasione da parte di Baku, e che ha irritato non poco Mosca.
Non a caso, negli ultimi giorni, reciproche dichiarazioni a distanza hanno manifestato una certa tensione tra Yerevan e il Cremlino. Da tempo l’Armenia non riconosce più l’efficacia della sua alleanza con Mosca (a cominciare dal sostanziale fallimento della missione di pace russa in Artsakh), e alcune decisioni politiche dimostrano un nuovo orientamento verso l’Occidente. Oltre alle annunciate esercitazioni militari con gli Stati Uniti, Yerevan ha recentemente trasmesso al parlamento lo Statuto di Roma, la cui ratifica farebbe aderire l’Armenia alla Corte penale internazionale (che a marzo ha emesso un mandato d’arresto per Putin). Non solo: il primo ministro Pashinyan ha richiamato il rappresentante armeno alla CSTO (organizzazione militare formata da Russia e altre ex repubbliche sovietiche) senza una nuova nomina e inviato, per la prima volta dall’invasione russa, aiuti umanitari all’Ucraina.
Se le voci fantasiose su una potenziale adesione dell’Armenia alla NATO sono state già smentite ad alti livelli, una vera rottura tra Yerevan e Mosca non è al momento prevedibile. E mentre l’Europa – legata all’Azerbaijan con l’accordo sul gas – non offre troppe garanzie all’Armenia, dall’Iran proliferano messaggi contro le minacce di Baku: Teheran non permetterà alcuna modifica territoriale nei pressi del confine armeno-iraniano.