L’Italia, come si sa, è ed è sempre stato un paese di forti contraddizioni.
Così può capitare che se da una parte un deputato fazioso e maldestro intralcia il parlamento con un obbrobrio giuridico destinato a limitare il diritto di opinione dei suoi concittadini e la terza carica dello stato vorrebbe distruggere monumenti e architetture erette durante il Fascismo, dall’altra, più precisamente all’università La Sapienza (che in teoria dovrebbe rientrare tra le costruzioni da demolire), il Presidente della Repubblica in persona partecipi alla solenne presentazione del restauro del capolavoro di Mario Sironi “L’Italia tra le arti e le scienze”, il grande affresco di 90 mq finalmente restituito al suo originario splendore.
Restauro che è consistito, principalmente, nel riportare alla luce, dopo 70 anni, proprio i simboli politici – fasci littori, aquile romane, gladii, profili del Duce – che maldestri predecessori di Fiano e Boldrini avevano nascosto sotto volgarissimi strati di pessima pittura.
Proprio gli stessi simboli che la legge del deputato PD vorrebbe vietare persino sulle bottiglie di vino e che secondo la presidentessa dovrebbero essere cancellati dalla faccia della terra insieme agli edifici che li contengono.
Anche la censura operata 70 anni fa racconta una vicenda tipicamente italiana intrisa di opportunismi e tradimenti.
Mario Sironi, genio della pittura italiana del ‘900, fascista militante ed impegnato, amico di Giuseppe Bottai, stimato da Picasso (che nel 1937 all’esposizione universale di Parigi, dove aveva esposto Guernica, aveva ammirato molto l’opera “Italia Corporativa”, salvata qualche anno fa dalla distruzione e restaurata dall’ENI) aveva pubblicato nel dicembre del 1933 il “Manifesto della pittura murale”, firmato anche da Campigli, Carrà e Funi, definendo gli obiettivi dell’arte del Regime: .
“La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori. L’attuale rifiorire della pittura murale, e soprattutto dell’affresco, facilita l’impostazione del problema dell’Arte Fascista”.
Negli anni ’30 aveva così arricchito le opere pubbliche delle città italiane di lavori monumentali a forte contenuto politico e sociale tra le quali l’affresco della Sapienza.
Nel 1945 era scampato per miracolo alla fucilazione partigiana grazie all’intervento dello scrittore Gianni Rodari, in quel momento partigiano comunista, ma era stato ovviamente epurato ed emarginato.
La critica settaria del dopoguerra, monopolizzata dalla cultura marxista e dagli intellettuali di partito, aveva poi scomunicato in blocco l’arte novecentista degli anni 30, screditando e ridimensionando quasi tutti i suoi protagonisti.
Sironi e molti altri interpreti di quella straordinaria stagione, ad oggi non tutti riabilitati, erano così finiti in un limbo di disprezzo, svilimento, isolamento che aveva precipitato il grande pittore in una profondissima depressione, aggravata dal suicidio della figlia Rossana appena diciottenne, che lo accompagnerà fino alla morte il 13 agosto 1961.
Il grande affresco della Sapienza, che già dopo il 25 luglio 1943 era stato coperto con cartoni e tavole che lo avevano danneggiato, dopo la guerra entrò subito nel mirino dei censori democratici.
E siccome siamo nella patria del trasformismo, fu proprio Marcello Piacentini, cioè l’architetto principe del Ventennio che in qualità di progettista della cittadella universitaria nel 1933 aveva commissionato a Sironi l’opera, ad esserne il più inflessibile censore.
Piacentini, nel tentativo di salvare il salvabile e di restare a galla, era riuscito a schivare l’epurazione buttandosi nelle braccia del potere democristiano, al servizio del quale aveva potuto conservare la cattedra universitaria e continuare, seppure in tono meno eclatante, la sua attività di progettista.
Ovviamente c’era un prezzo da pagare, Piacentini doveva assolutamente dimostrare la solidità della sua nuova fede “democratica” e per questo divenne, con grande disinvoltura, il principale ripulitore politico delle opere che lui stesso aveva commissionato o realizzato per conto del Fascismo nonché il più solerte epuratore degli artisti che avevano collaborato con lui.
Sironi, rimasto fascista e mai pentito, non poteva non pagare un conto salato.
Per ordine dello zelante e ipocrita Piacentini, che a Sironi aveva fatto credere di voler solo riparare i danni del 1943, tra il 1948 e il 1950 “L’Italia tra le arti e le scienze” fu non solo purgato dei simboli politici ma addirittura radicalmente modificato, ridipinto da un mediocre mestierante che cancellò l’aspro e severo stile monumentale di Sironi per sostituirlo con una pittura dozzinale, priva di qualsiasi valore, diretta a censurare e cancellare brutalmente non solo il significato politico dell’opera ma anche la personalità del suo autore.
Curzio Malaparte, in una lettera a Mario Sironi datata 21 settembre 1954, commenterà la vicenda rallegrandosi di essere riuscito “a rimaner buono in questi tempi di tradimenti, di viltà, e di carognaggine”.
Lo scempio è sempre stato attribuito a Carlo Siviero, pittore minore della scuola napoletana, ma dalla documentazione emersa proprio per il restauro risulta ora che l’esecutore materiale, sotto la supervisione di Siviero, fu un certo Alessandro Marzano, artista pressoché sconosciuto, scadente e dozzinale.
Non fu questo l’unico caso di censura politica che subirono le opere di Sironi, spesso con risultati grotteschi come per il mosaico “La Giustizia armata con la legge” che domina l’aula della Corte d’Assise d’Appello del Palazzo di Giustizia di Milano dal quale è stato completamente abraso un fascio littorio. Peccato, però, che in questo caso l’opera intenda rappresentare la giustizia romana, nella quale il fascio simboleggia tradizionalmente la forza della legge e non il partito di Mussolini, che arriverà più di 2000 anni dopo l’epoca rappresentata.
Ma il caso più curioso di censura a Mario Sironi è avvenuto non moltissimi anni fa durante il primo governo del centro-destra berlusconiano.
E’ il 16 aprile 1994, Berlusconi con l’appoggio di Lega e MSI (tale ancora per poco), ha appena vinto le elezioni politiche e la coalizione catapulta sullo scranno più alto della Camera dei Deputati l’allora giovanissima Irene Pivetti, all’epoca in modalità cattolica-integralista.
La ragazza appena preso possesso dei prestigiosi uffici di Montecitorio zeppi di notevolissime opere d’arte, non trova di meglio che rimuovere tutti i nudi pittorici sostituendoli con soggetti religiosi e scene di battaglia.
Una scelta di ridicola intolleranza bacchettona della quale fecero le spese una grande Composizione di Mario Sironi, nella quale comparivano una donna seminuda e tre uomini nudi, la Venere dormiente (ovviamente nuda) di Luca Giordano e altri quadri “scandalosi” di soggetto mitologico.
Si salvò invece una Figura di Donna di Campigli in quanto completamente vestita.
La decisione trovò subito l’opportunistica sponda dell’allora deputato forzista Vittorio Sgarbi il quale di fronte all’assurdità di quella decisione non mancò di rilevare che nel caso di Sironi andava sfrattato un “pittore fascista”, prontamente sostituito con una Madonna con Bambino di Bernardino Luini.
Fortunatamente, almeno in quel caso, non fu necessario aspettare 70 anni per rimettere le cose a posto; sloggiata la Pivetti il suo successore Luciano Violante riportò i quadri dove stavano prima.
Episodio più comico che drammatico ma istruttivo: ignoranza ed intolleranza sono bipartisan e non hanno colore; sarà un caso o un sortilegio che la terza poltrona dello stato sia destinata ad essere occupata da personaggi del calibro della Pivetti allora e della Boldrini oggi, entrambe impegnate a modo loro nel fare sfoggio di ottusa intolleranza, contro quadri “licenziosi” l’una, contro gli obelischi e l’architettura “fascista” in genere l’altra.
D’altra parte né la destra politica di allora, che ancora si chiamava MSI, nè quella successiva targata AN e neppure quella di oggi si sono mai interessate di problemi del genere, al di là di qualche polemica transitoria e strumentale.
La convinzione che cultura, idee e voti appartengano a galassie lontane e non comunicanti è dura a morire.