Barbieland è un mondo parallelo a quello reale, dove la vita delle Barbie (che senza il minimo sforzo reggono la perpetua armonia del loro microcosmo) e dei Ken (meramente decorativi) scorre in una monotona perfezione. Barbie Stereotipo, bellissima, sciocca e sempre vestita di colori pastello, vive nella Casa dei Sogni e frequenta Barbie Presidentessa, Barbie Membro della Corte Suprema, Barbie Sirena, Barbie Nobel per la Letteratura e Barbie Scienziata; Ken da Spiaggia, aitante e stupidissimo, vive soltanto per farsi notare da Barbie Stereotipo. La quale comincia ad avere pensieri cupi, finché un giorno meno sereno d’altri scopre con sommo orrore che i suoi piedi hanno perso la deformazione da tacchi a spillo, e le è persino comparsa una traccia di cellulite. L’emarginata Barbie Stramba la istruisce: deve recarsi nel mondo reale, per scoprire perché la bambina che gioca con lei ha spezzato il suo equilibrio; Barbie Stereotipo si mette così in marcia, accompagnata nel mondo reale da Ken da Spiaggia che, frustrato dal non poterla conquistare, ottiene la sua rivalsa scoprendo il Patriarcato.
Warner Bros e Mattel hanno commissionato questo film, strambo e originale, a Greta Gerwig, regista e (ormai ex) attrice, pretenziosa e intellettualoide, che oltre a dirigerlo lo ha sceneggiato assieme al fidanzato, il collega Noah Baumbach, capofila del “mumblecore”: i film con protagonisti gli “hipster” di New York che “borbottano” sui loro tormenti ( “Il calamaro e la balena”, “Lo stravagante mondo di Greenberg”, “Storia di un matrimonio” e, con protagonista la stessa Gerwig, “Frances Ha”): roba che a confronto le scemenze di Wes Anderson sono arte (si scherza, il cinemino giocherellone di Anderson è monnezza).
Alla coppia va riconosciuto d’essere usciti dal loro solito recinto (come si dice adesso, dalla loro “comfort zone”), dalla solita New York e dai soliti “bohémien” di Brooklyn che torturano lo spettatore con le loro sfighe e le loro menate e il loro complesso di superiorità nei confronti di quei cretini che lavorano otto ore al giorno (molto peggio di quando Nanni Moretti faceva Michele Apicella – l’alter ego che, per fare solo un esempio, in “Sogni d’oro” prova a girare un film su Freud e si contorce per terra urlando “ho ancora tante cose da dire”). “Barbie” è un film stilisticamente impegnativo, dovendo restare per tutta la sua durata su di un registro surreale.
L’operazione sta funzionando, già nei primi giorni di programmazione in sala il film (protagonista del fenomeno “Barbenheimer”: l’uscita estiva di due film dai quali ci si aspettavano grandi incassi – l’altro è il kolossal di Christopher Nolan con Cillian Murphy nei panni del fisico Robert Oppenheimer) ha incassato uno sfracello di dollari e di euro, assegnando a “Barbie” e alla Gerwig (al suo quarto lungometraggio da regista) il primato del maggior incasso di sempre per un film diretto da una donna.
Il film non è del tutto riuscito. La prima parte, grottesca e con qualche trovata comica assai azzeccata, è ben realizzata. Il problema comincia quando il film prova a diventare serio, senza riuscirci (nonostante l’impegno della sua interprete, Barbie non può essere un personaggio drammatico): riassumendo la carriera di Gerwig & Baumbach, due artistoidi che provano a sembrare due cineasti di alto livello. Da metà film, si guarda l’orologio persino più volentieri del volto angelico di Margot Robbie.
La diva australiana (candidata al premio Oscar nell’edizione – particolarmente di basso livello: miglior film fu eletto il didascalico “La forma dell’acqua” – 2018 per l’ottima interpretazione di “Tonya”; le fu ingiustamente preferita l’attrice più sciatta di Hollywood, la sempre mesta Frances McDormand – “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”) è uno dei pochi punti di forza del film; incredibilmente la surclassa Ryan Gosling, che sinora sembrava non aver mai imparato a recitare (il suo film migliore, “Blade Runner 2049”, ironicamente lo vedeva confrontarsi col sommo maestro della recitazione legnosa, Harrison Ford); forse la comicità lo aiuta. Camei della cantante Dua Lipa e del wrestler John Cena, entrambi in forma di sirenetti; Rhea Perlman (moglie di Danny De Vito) interpreta il fantasma di Rhut Handler, ideatrice di Barbie e fondatrice di Mattel; Emma Mackey (la sola che abbia fatto bella figura nel nemmeno tanto stellare cast dell’orrendo “Assassinio sul Nilo” versione Kenneth Branagh) è Barbie Scienziata; la non proprio necessaria voce narrante è nella versione originale di Helen Mirren, e in italiano della sua doppiatrice storica, Ada Maria Zanetti (voce anche di Sigourney Weaver, Vanessa Redgrave, Faye Dunaway e Jacqueline Bisset).
Brutta, banale, volgare e stupida la gag finale, prima dei titoli di coda sulle note di “Barbie Girl” dei danesi Aqua (ai quali la Mattel contestò, invano, i diritti e lo stile), una delle canzoni più famose degli anni ’90: viva la fantasia.
Quando Barbie e Ken approdano al mondo reale, dopo un paio di scene spassose a Venice Beach (micidiali i due poliziotti che con la bava alla bocca commentano la Robbie) il film svolta in peggio: rallenta, assume un tono serio che risulta stonatissimo (l’intellettualismo fa danni, la Gerwing e Baumbach ne sono soltanto l’ennesima riprova), si incarta in funzione d’arrivare al monologo di America Ferrera (riesumata una dozzina d’anni dopo l’estemporaneo successo del telefilm “Ugly Betty”): il suo personaggio, Gloria (impiegata della Mattel e madre di Sasha, la ragazzina saccente che dà a Barbie della fascista), si sfoga per la pressione che la società impone alle donne: devono essere magre ma le si critica se sono magre, devono lavorare ma le si critica se fanno carriera, devono essere perfette ma le si critica se eccellono…
Nel frattempo, la nazionale italiana femminile di calcio arricchiva una già ingloriosa tradizione di batoste con una cinquina rifilata da parte delle svedesi; ma nessuno può dire alla CT Milena Bertolini che magari non sono tanto brave, o finirebbe crocifisso. Da qualche anno a questa parte la nazionale maschile, a parte l’incredibile vittoria degli Europei nell’estate 2021, è (più che legittimamente) bersagliata da critiche, e quando perde Roberto Mancini sa di rischiare il posto. Si tratta soltanto d’un esempio: dire che le donne nel 2023, anzi da qualche anno a questa parte, subiscano una pressione che agli uomini è risparmiata non fa nemmeno ridere. Una donna può sminuire un uomo perché “non è proprio Ryan Gosling”, ma se un uomo depreca che una donna “non è proprio Margot Robbie”, è un maschilista che opprime le donne con paragoni inarrivabili e riducendole alla loro apparenza. Una donna può vendicarsi d’un uomo portandolo in tribunale ed estorcendogli soldi con l’aiuto d’un centro antiviolenza (che si tratti d’una millanteria poco importa: una donna bugiarda è comunque ritenuta più credibile d’un uomo onesto). Una donna può accusare un uomo che non la assecondi di “fare un torto a tutte le donne”, attirandogli un’ostilità quasi universale. Una donna colpevolissima può lamentarsi d’essere accusata “in quanto donna”, e quindi oggetto d’una persecuzione plurisecolare (le cui vittime lei stessa insulta, appropriandosene per secondi fini). Una donna grassa sta manifestando il suo diritto alla “body positivity” (rovinandosi la salute); un uomo grasso e/o basso e/o calvo è uno sfigato. L’astio verso la “mascolinità tossica”, la mendacia di tale definizione, cosa stia dietro questa campagna d’odio e quali ne sono e ne saranno i risultati, è questione degna d’un discorso a sé.
Che per secoli le donne abbiano subito un trattamento sfavorevole, crudele, inumano è innegabile. Fare film su uno qualsiasi dei momenti storici nei quali le donne hanno subito la prepotenza maschile sarebbe plausibile. Farne uno sull’oggi, in questo momento nel quale il pensiero unico dominante e corrente ha tra le sue parole d’ordine la misandria, la “lotta al patriarcato” (ridotta a slogan) e un diffusissimo odio (soltanto proclamato – al momento) nei confronti del “maschio bianco cisgender” (leggi: uomo caucasico eterosessuale), e proclamare che siamo in un momento storico nel quale le donne sono “sotto pressione”, può sembrare credibile alla rediviva Lella Costa (che spopola sul sito di Repubblica con un video nel quale parafrasa, credendosi originale, il monologo di America Ferrera in “Barbie”), o alla sua collega più in voga, la solita Michela Murgia.
“Barbie” è un prodotto cinematografico di pregio: è ambizioso, ha un suo stile e un suo carattere, ha due protagonisti carismatici. Non è un manifesto: è un prodotto commerciale, che si affanna a negare di essere tale (l’ironia sulla Mattel, o sui guai della Handler col fisco, sono soltanto di facciata); per quanto la Gerwig si ostini a dire di essere un’artista indipendente, ha soltanto realizzato uno spot pubblicitario. Grosso, di buona fattura, con una sua cifra: ma comunque uno spot pubblicitario. Reclamizza la Mattel (che il “villain”, il CEO alias Madre interpretato dal mai divertente Will Ferrell, resti una figura bonaria, è eloquente), non il femminismo; e non è un film femminista, piuttosto è misandrico. Lo scorso anno uscì un film di spionaggio, “Secret Team 355”, protagonista Jessica Chastain (che, produttrice, era la volontà dietro la realizzazione del film stesso) con Diane Kruger e Penelope Cruz: una versione corale di 007, dove gli uomini sono quasi tutti cattivi, e quei pochi che rasentano la decenza hanno funzione ancillare e fanno una brutta fine; al di là delle prese di posizione, un film fatto malissimo (attrici poco convinte – la Kruger era lì perché Marion Cottilard, dopo aver letto la sceneggiatura, aveva mandato la Chastain a remengo, dialoghi imbarazzanti, buchi nella trama, scene di combattimento disastrose, finale da chiedere il rimborso del biglietto): legittimamente ignorato sia dalla critica che dal pubblico.
Lo stesso discorso d’odio, se il film è fatto a regola d’arte, raggiunge il grande pubblico.