Vita e imprese di Buddy, alter ego di Kenneth Branagh, che racconta la propria infanzia nella capitale dell’Ulster attraverso gioie e disavventure di questo monello gentile. Un piccolo universo che ruota attorno alle chiacchiere col nonno (Ciaran Hinds sugli scudi), prodigo – nonostante i polmoni logorati da anni nelle miniere, e i brontolii perplessi della nonna – di saggezza, soprattutto su come conquistare Catherine, la più bella della scuola. Sullo sfondo, l’aggressione dei protestanti unionisti ai danni dei cattolici irredentisti: gli scontri che nell’agosto 1969 innescarono i “Troubles”, il trentennale conflitto (per quanto almeno riguarda la prima fase) a bassa intensità dell’Ulster.
“Belfast” ha tantissimi difetti: la mediocrità dell’inizio (il montaggio di “cartoline”, con in sottofondo il solito Van Morrison); la banalità della colonna sonora (“Carrickfergus” sta all’Irlanda come “O’ sole mio” all’Italia); la scelta degli interpreti (tutti bravi, anche Caitrìona Balfe e Jamie Dornan: i quali però, con la loro avvenenza da rivista di moda, non sono credibili come casalinga angustiata e carpentiere); uno stucchevole momento che sembra ripreso da “Nuovo cinema Paradiso” (la famiglia di Buddy va al cinema a vedere “Chitty Chitty Bang Bang”, e si lascia catturare non da accessi di violenza istigati dalle smorfie di Dick Van Dyke, bensì dalle peripezie della “Magical Car” inventata da Ian Fleming). Ma non facciamo come gli studenti del DAMS di Onda Cinema et similia, che guardano il dito invece della luna: il tutto è più delle sue parti, e “Belfast” è un bel film, tanto più che finalmente Judi Dench se ne sta sullo sfondo (impagabile Lara McDonnell, ossia la piccola delinquente Moira).
Kenneth Branagh è reduce da una crisi ben peggiore di quella che lo travolse a cavallo del Duemila (quando recitò in un fiasco, “Wild Wild West”, e ne diresse un altro, “Pene d’amor perdute”): negli anni ’10 si era ridotto a dirigere un po’ di spazzatura Marvel (“Thor”), l’ennesimo “Jack Ryan”, un “live action” di “Cenerentola” commissionato dalla Disney (dapprima a Mark Romanek, specialista di videoclip: Branagh si è accontentato dei suoi avanzi) come riempitivo, e l’adattamento d’un bestseller per ragazzi, “Artemis Fowl”; accontentandosi in tutto il decennio giusto d’un tributo all’adorato Bardo (“Casa Shakespeare”), l’attore e regista aveva trovato ancore di salvezza prima nel sodalizio col cervellotico Christopher Nolan (“Dunkirk” e “Tenet”), poi in due nuove versioni dei classici di Agatha Christie, attribuendosi il ruolo di Poirot in “Assassinio sull’Orient Express” e “Assassinio sul Nilo”: trionfi di mediocrità patinata, ma il pubblico è accorso. Branagh si è così potuto consolare per la mancata partecipazione (complice il rifiuto di Nolan di dirigere il film) al controverso (e a modo suo, epocale) “007 – No Time To Die” e soprattutto ha potuto permettersi il suo film più personale: per l’appunto, “Belfast”.

Al di là dei sopracitati vizi di forma, “Belfast” presenta un grave problema storico: lascia passare l’idea che i nordirlandesi si siano picchiati fra di loro, e che le truppe britanniche abbiano riportato ordine, come i celerini in una grossa rissa di stadio. Si permette Branagh di insistere un poco sulla questione religiosa: insomma il conflitto dell’Ulster sarebbe stata una questione teologica trascinatasi in una lunga sequela di risse. Non è un modo corretto di affrontare la questione: nulla di nuovo, c’è chi ha fatto di peggio, si pensi ai due film idiotissimi su Elisabetta I con Cate Blanchett o al bruttissimo telefilm sulla dinastia Tudor con Jonathan Rhys-Meyers meno credibile che mai nei panni di Enrico VIII.
Il passato è una terra straniera, e in Gran Bretagna l’ultimo film storico decente è stato girato da un regista greco che (“La favorita” di Yorgos Lanthimos, per il resto responsabile soltanto di nefandezze). Recentissimamente è stato girato un film su Tolkien che ne aggira del tutto la fede cattolica (che è come farne uno su Totti e non menzionarne il legame con la città di Roma), perché non mostrare i “Troubles” irlandesi limitando tutto alla questione religiosa e tralasciando del tutto le colpe della Perfida Albione?
Purtroppo, Branagh il film lo doveva presentare ai BAFTA (dove, su cinque candidature, “Belfast” ha vinto il premio al miglior film): andarci con un film che attribuisce a Sua Maestà britannica la violenza fratricida che da secoli affligge le contee irlandesi non sta bene, l’etichetta lo proibisce. Così, se non sta bene fare come i cinefili da giornalino universitario che blaterano di tecnicismi e non guardano il film nella sua interezza, non è bello nemmeno fare gli intransigenti su questioni politiche – il rischio è di finire come i sessantottini che facevano i processi a registi e cantanti che non obbedivano alla rivoluzione telecomandata dal capitale: si pensi a Jean-Marie Straub, uno che in vita sua le fabbriche non le ha mai viste manco in foto, che pretese il rogo di “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri perché attribuiva al movimento operaio la responsabilità dei suoi stessi scacchi.
L’ortodossia è per i cinefili col ditino alzato. “Belfast” è un film che, seppur tutt’altro che calligrafico, e nonostante la sua versione accomodante dei fatti, si fa apprezzare per la sua grande dimensione poetica. Andando ben oltre la fin troppo abusata retorica del bambino che va al cinema e sogna, con “Belfast” Branagh ha raffigurato molto bene un universo poetico, una dimensione affettiva, una interiorità profonda. Alcune trovate comiche geniali (una nel bel mezzo del momento più difficile) gli fanno perdonare il resto.