Un ottimo esercizio di masochismo da svolgere nel 2020 è la lettura del “Giornale” di Mircea Eliade: magari quello edito da Bollati Boringhieri, che attraversa la vita del savant rumeno dalle prime settimane del secondo dopoguerra. Terribile la malinconia da cui si può essere assaliti nel racconto dei suoi anni ’50: grandi nomi, molti dei quali purtroppo oggi obliati. Si stagliano, nella rassegna degli incontri e delle amicizie eliadiane: Henry Corbin, Roger Caillois, Georges Dumézil, Jean Baruzi, Teilhard de Chardin… e pletore di professori, scrittori, artisti, anche avventurieri; Carl Gustav Jung e il suo convivio ad Ascona.
Gente in gamba, eruditi seri (pur con le loro follie), che studiava tantissimo, lavorava parecchio e ha espresso un tesoro di sapienza. Forse essere passati dalla guerra (anche chi fra loro non era stato sul fronte, aveva dovuto affrontare ristrettezze, beghe politiche) li aveva aiutati nell’essere così validi, tenaci, laboriosi. Erano insomma delle eccellenze, favorite da una grande temperie culturale. Condizione ormai scomparsa, siamo in pieno regime di “mediocrazia”: tutto tenue, tutto ammorbidito, tutto alla portata di tutti.
Il pensiero unico propugna la livellazione verso il basso, e la persegue con precise politiche (anti)culturali : si pensi a un suo sicario, Emma Bonino, che chiede l’abolizione degli studi umanistici; asserisce, la profetessa dei bocconiani, che i nuovi laureati devono servire, funzionare, fatturare, invece di badare a fronzoli come arte, cultura, tradizione, radici, civiltà. In una società sana, chi lanciasse una proposta così incivile sarebbe espulso dall’agone politico. Invece, a parte qualche rimostranza, l’ennesimo rutto della politica italiana più antisociale, ineducata e nociva di sempre è passato quasi inosservato. Anzi, è stato recentemente perfino superato.
Nel linguaggio comune, con “Oxford” si intende un ambiente di suprema cultura; la nomea dell’ateneo inglese, anche più di quello vicino e rivale di Cambridge, è diventata un modo di dire. La classe dirigente britannica arriva da lì. L’attuale primo ministro, Boris Johnson, è uno dei politici inglesi che vi si sono formati (prima di lui Gladstone, la Thatcher e Blair); assieme a grandi letterati che sono stati anche avventurieri e spie (sir Raleigh, Gertrude Bell, Lawrence d’Arabia, Graham Greene, David Cornwell alias John le Carré), filosofi (Occam, Hobbes, Bentham, Locke), scrittori (Wilde, T.S. Eliot, Auden, il cardinale Newman, Tolkien e C.S. Lewis), attori (Hugh Grant, Rowan Atkinson ossia Mr. Bean). Si può essere perplessi sui politici citati, dissentire dai filosofi oxoniensi; ma per secoli nessuno ha negato che questa università fosse una fucina di eccellenze. Adesso però si svolta: verso il baratro.

Non bastavano le idiozie che, importate dagli Stati Uniti, stanno invadendo le università europee e, con particolare entusiasmo, quelle italiane: le riletture della storia e della letteratura escludendone i maschi bianchi (insomma quasi tutti i protagonisti dell’una e dell’altra); la storia del genere, la storia della letteratura di genere e altre imposizioni, incolte e anticulturali, dell’arroganza conformista del pensiero unico; sgradite a chi la cultura la frequenta per davvero, gradite a studenti con la testa inscatolata bramosi di potersi laureare obbedendo tanto e studiando poco, e a professori che ne sanno persino meno di loro.
A Oxford non si studia più la letteratura classica. Non era abbastanza grave che all’università di Bergamo si superasse l’esame di storia romana senza sapere chi fosse Costantino, o che a quella di Genova si passassero esami della magistrale in storia dell’arte (quindi, con una triennale umanistica già in tasca) senza immaginare perché, nel 1933, studiosi ebrei trovassero opportuno trasferirsi da Amburgo a Londra.
Se Sparta piange, Atene non ride: se università di provincia come quella in cui si è laureato il sottoscritto premiano tesi sul Rocky Horror Picture Show e sopprimono il corso in storia del Rinascimento, la gloriosa Oxford si adegua e getta nel cestino Omero e Virgilio. Tanto, come dice la Bonino, non servono più.
Tre i motivi della scelta – e nessuno valido. Uno è proprio quello propugnato dalla paladina dei diritti umanitari che per convenienza personale sosteneva la liceità dei bombardamenti americani su Belgrado e Sarajevo: gli studi classici non sembrano avere utilità pratica (l’avrebbero, laddove si sfruttino intelligentemente le risorse culturali con un sistema turistico e museale adeguato… fa niente).
Un altro è il solito, la dittatura accademica del pensiero unico: tutto ciò che rimandi a un immaginario nel quale i vituperatissimi “maschi bianchi” tengano il pallino del gioco, va cancellato. Con buona pace delle figure femminili forti, quando non fortissime, che pullulano nella mitologia greca e nella storia romana, da Didone ad Agrippina, da Cornelia a Lucrezia. Infine: bisogna andare incontro alle esigenze degli “studenti meno dotati”. Todos caballeros! Anche i ciucci hanno diritto a laurearsi a Oxford.
Sulle sponde del Cherwell, il ’68 non sembra essere terminato. L’odio per i più abili, per le eccellenze divampa sempre più furibondo. L’egualitarismo è una cretinata: siamo tutti diversi fra noi – in senso sia orizzontale (alcune differenze sono semplicemente varietà, senza distinzione di valore) che verticale (altre stanno a dimostrare che alcuni sono meglio di altri).
In una utopica “città del sole”, il modo migliore per rendere tutti uguali in base alle capacità sarebbe alzare l’asticella: chi sta indietro, dovrebbe correre più veloce. Ma nel mondo in cui viviamo (secondo un filosofo che visse poco dopo Campanella, il migliore fra quelli possibili) non è così: ci sono tanti che hanno capacità ridotte, e pochi che possono fare di meglio. I secondi non devono guardare con disprezzo ai primi, ma i primi non devono pretendere che i secondi siano come loro. Perché se nella storia dell’umanità è stato fatto qualcosa di bello, se non bellissimo, e di grande, se non grandissimo, lo hanno fatto coloro i quali (con dispetto dei cinici e dei qualunquisti) ne sono in grado. Il Rinascimento non ha mai considerato l’egualitarismo, ed è stato possibile perché non c’era nessuno che pretendeva di abbassare l’asticella.
È immediato prevedere le conseguenze dell’esecrabile minaccia degli accademici inglesi: in Italia ci si convive da decenni. I signori che abbiamo citato – Eliade, Jung e compagnia cantante – non hanno mai pubblicato “bestseller”, di quelli che si trovano persino sui banchi degli autogrill. Però a “fare cultura” erano personaggi della loro tempra – prima del ’68, del 18 politico, del diritto universale alla laurea (con conseguente svalutazione, anche in senso meramente pratico, del suo valore), degli asini in cattedra.
Da anni vediamo, quotidianamente, chi fa “cultura” in Italia: le Murgia, le Marzano, i Raimo, i Montanari, i Saviano, i Gramellini, i Paradiso, i Catalano. Gli studenti analfabeti che berciano contro gli “analfabeti funzionali”, e “minacciano” di emigrare se gli “italioti ignoranti” non votano come dicono loro. È grazie al livellamento verso il basso che gente della risma d’un qualsiasi collettivo Wu Ming può dettare legge con arroganza, occupare con fare militaresco le cattedre e l’editoria, ammantarsi d’una saccenza cui non corrisponde un’effettiva cultura.

La cultura non è per tutti – la cultura è fatica, è impegno costante, è spaccarsi la testa. Non è cosa per i millennial conformisti che si informano seguendo pedissequamente le bufale di Enrico Mentana o le baggianate di Selvaggia Lucarelli, e ritengono un bravo divulgatore come Alberto Angela il custode della sapienza più augusta. Deplorare l’ignoranza delle “masse” è il nuovo sport nazionale: ma non lo praticano dei pozzi di scienza.
Mentre in Italia ci si accapiglia sulle traduzioni di “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien (tutt’altro che un caposaldo intoccabile della letteratura occidentale), nel glorioso ateneo in cui il filologo sudafricano si laureò con un colpo di spugna si cancellano dalle lavagne i pilastri della cultura (in senso ampio) occidentale. Assieme a essi, si attaccano le basi della civiltà, la serietà della futura classe dirigente, la possibilità per le generazioni future di vivere in un mondo retto dalla bellezza, e non da mode di costume create a tavolino da signori degli anelli più perfidi, e reali, di quelli immaginati da Tolkien.
Una certa destra che cita in continuazione il mappazzone tolkieniano (la difesa della tradizione, dei valori, del focolare, della torta di mele e balle varie) e si lamenta dello strapotere (sussistente, dannosissima) culturale della sinistra italiana, dovrebbe capire perché non l’ha impedito sinora, e cosa può fare per offrire in futuro un’alternativa (valida, se possibile) a esso. Perché si possono ripetere tutti gli slogan che si riesce a inventare, sulla custodia delle tradizioni e via dicendo; ma di fronte a un baratro così profondo e tenebroso, bisogna andare oltre il repertorio degli slogan di Atreju.