Un milione di disoccupati in più nel giro di dodici mesi e – paradosso solo apparente nel Belpaese – la pressione fiscale che schizza al 52%: è compendiato in questi due numeri il fallimento del modello Italia, quello che Giuseppi ed una stampa compiacente – di regime, per dirla alla Marco Pannella – avevano indicato come il migliore nella reazione alla crisi innescata dalla pandemia.
Il fallimento era già evidente da tempo sotto il profilo sanitario, ora è innegabile anche sotto quello socio-economico. I dati snocciolati dall’Istat non ammettono dubbi, anche le capriole dei media e l’attesa messianica del piano di salvataggio europeo non riescono a nascondere il disagio crescente del mondo del lavoro, eccezion fatta per statali e pensionati, ormai gli unici a confidare in una serrata perpetua quale antidoto alla pandemia. A dispetto delle illusioni dei garantiti, la realtà bussa alla porta e lo fa con forza: con i numeri e con le crescenti manifestazioni di piazza.
Ma andiamo con ordine. A fronte di un crollo del pil dell’8,9% su base annua e di una più che sensibile riduzione delle entrare fiscali e contributive, lo scorso 2 aprile l’Istat certifica che nell’ultimo trimestre del 2020 la pressione fiscale ha raggiunto l’incredibile livello del 52%. Un tetto mai toccato negli ultimi sette anni. Segno non solo del completo fallimento del piano economico varato dal Conte II – evidentemente il “bazooka” di Giuseppi era caricato a salve -, quanto piuttosto dell’assoluta incapacità dei vertici politici del Paese di comprendere le reali dinamiche ed esigenze del sistema produttivo italiano. Del resto se da un anno a questa parte la chiusura di interi comparti produttivi è la linea cui ci si attiene – e l’esecutivo Draghi sembra incapace di discostarsene – c’è poco da meravigliarsi.

A confermare il disastro italiano sono arrivati all’indomani della Pasqua i dati sull’occupazione: a febbraio 2021 mancano all’appello 945mila posti di lavoro rispetto ad un anno fa. Dipendenti e autonomini, uomini e donne: tutti hanno pagato un pesante tributo alla crisi. Dinanzi a questo dato suonano quanto meno beffarde le parole del ministro dell’Economia Gualtieri, che lo scorso 11 marzo annunciò trionfalmente: “Nessuno perderà il lavoro”. Ineccepibile: un milione di italiani lo aveva già perso!
La situazione, però, è ben peggiore di quella fotografata dall’Istat: i dati relativi al calo dell’occupazione non contemplano, ovviamente, la tempesta che si è abbattuta sui lavoratori irregolari, centinaia di migliaia di occupati “in nero” (per necessità quasi sempre, non perché evasori come pure ama dipingerli certa stampa) che sfuggono ad ogni conteggio. Uno tsunami, quello che ha colpito questi lavoratori sommersi, che in alcune regioni del Paese – in particolare nel Mezzogiorno – ha proporzioni enormi, mettendo realmente a rischio la sopravvivenza di numerose famiglie. Ed i dati sulla crescita della povertà assoluta e relativa sono lì a testimoniarlo.
In questo quadro a dir poco fosco – ma forse è necessario arrivare all’esasperazione della crisi, accettando il rischio di un’esplosione della tensione sociale per vedere un cambio di rotta – continua a stupire l’incapacità di sentire il polso del Paese reale da parte della classe politica e del sistema dell’informazione. Esemplari da questo punto di vista le priorità indicate dal neosegretario del Pd Letta – ius soli e voto ai sedicenni – o le pressioni dei partiti di sinistra per calendarizzare la discussione in aula del controverso ddl Zan: quasi che le lunghe file per un pasto caldo – file di cui alla fine sono stati costretti ad accorgersi anche quotidiani progressisti come La Stampa e Repubblica – possano trovare lenimento portando alle urne gli under 18.
La frattura fra Paese “istituzionale” e reale è enorme, così quella tra alta borghesia progressista – altrimenti detta radical chic – e cittadini alle prese con i quotidiani problemi di un mondo radicalmente altro da quello disegnato e raccontato dai media mainstream. L’esito di questo divario è al momento impossibile da prevedere. Chi cavalcherà la tigre?