Secondo la celeberrima massima di John B. Bogart, il famoso caporedattore del New York Sun, “Il cane che morde l’uomo non fa notizia, ma un uomo che morde un cane sì”. Visti i risultati elettorali di domenica, in mancanza di meglio molti giornali hanno trionfalmente annunciato che la coalizione di sinistra guidata da Emilio del Bono ha “conquistato” Brescia, cioè che un cane ha morso un uomo.
In questi tempi difficili per la sinistra e i suoi seguaci anche la scontata conferma della mediocre amministrazione comunale della Leonessa d’Italia diventa, in mancanza di meglio, un avvenimento da celebrare con la fanfara.
Come fa, ad esempio, un enfatico, editoriale dell’edizione bresciana del Corriere della Sera, secondo il quale a Brescia sarebbe nato addirittura “il modello di un nuovo schema politico” che avrebbe portato il PD “ai fasti delle europee”, per intenderci quelle del 40% al PD in cambio dei famosi 80 euro regalati da Renzi.
In realtà sono sessant’anni che Brescia è amministrata da coalizioni di centro sinistra, con l’unica eccezione della giunta di centro destra vittoriosa nel 2008, piuttosto opaca e per questo disarcionata solo 5 anni dopo, perdendo un’occasione storica.
Se le cose continueranno così sarà molto difficile in futuro vedere sotto la Loggia un uomo che morde un cane, cioè uno schieramento di destra capace di scalfire il blocco di potere politico, economico, culturale e persino religioso (a Brescia il clero da sempre pende decisamente verso sinistra) che storicamente amministra in città il potere visibile e quello invisibile.
Eppure basta un’analisi un po’ più attenta dei numeri per smontare i facili trionfalismi strombazzati in queste ore dalla sinistra sui giornali allineati e per le vie della città, vera e propria capitale morale del cattocomunismo.
Nessuno ha rilevato, ad esempio, che domenica a Brescia si è registrata la più bassa affluenza alle urne di sempre: hanno votato solo in 82.127 (57,40%) contro i 118.716 del 2008 (84,90%, vittoria del centro destra) e i 90.300 del 2013 (65,54%).
Il sindaco uscente Emilio del Bono con soli 44.237 voti ha raggiunto stavolta il 53,86% al primo turno, mentre nel 2008 con 42.460 voti era stato sconfitto arrivando solo al 35,77% a fronte dei 61.011 voti (51,39%) dell’allora vincitore Adriano Paroli.
Non molto diversa la situazione del 2013, quando Del Bono era riuscito a piazzarsi in Loggia con 34.373 voti (38,06 %) al primo turno e 46.850 (56,53 %) al secondo, un risultato che nel 2008 gli avrebbe garantito solamente una pesante sconfitta. Traducendo i numeri in termini politici le conclusioni sono evidenti; a Brescia, per dirla con Pino Romualdi, il problema non la sinistra forte, ma la mancanza della destra.
La sinistra negli anni ha mantenuto più o meno intatta la sua base elettorale (il che di questi tempi è già un notevole risultato), ma con sostanzialmente gli stessi voti nel giro di tre turni elettorali è passata dal 35,77% di una sonora batosta al 53,86% della vittoria diretta di domenica scorsa.
E’ l’elettorato del vecchio centro destra ad essere franato: all’appello mancano i 29.717 voti che separano il risultato del 2008 da quello di domenica. Voti finiti in massima parte nell’astensione e nel disinteresse, in un contesto nel quale i grillini (fermi al 5,59%) non hanno mai attecchito per l’evidente inutilità della loro proposta politica in una città seria, concreta, sobria e tradizionalmente bene amministrata da chiunque abbia occupato la Loggia. In fondo Del Bono ha vinto solo per inerzia, rotolando passivamente su di un binario solido e sicuro che esiste e funziona da molto prima di lui.
A ben vedere, anzi, la sua giunta è mancata totalmente sul piano della visione e della progettualità, cincischiando inutilmente, senza concludere niente, sui grandi temi come quelli della riqualificazione delle periferie degradate (vedi il caso delle torri di San Polo), del rilancio del centro cittadino (a meno di non considerare iniziative serie le schitarrate in piazza), delle infrastrutture e dei trasporti, delle bonifiche ambientali (nonostante il governo amico) e della valorizzazione culturale (affidata ad iniziative estemporanee e creative passate quasi completamente inosservate).
Resta il fatto che la destra non è riuscita negli anni a proporre niente di meglio, dimostrando anche qui di essere solo un consorzio elettorale buono, a volte, per battere la sinistra alle elezioni ma incapace di una seria ed efficace ideazione politica.
Dopo il sostanziale autoaffondamento, per inadeguatezza propria, della giunta Paroli il centrodestra è rimasto a galleggiare con una opposizione di maniera basata più sulla polemica spicciola che su una seria contestazione delle scelte (poche) e delle politiche dell’amministrazione.
Di sicuro nessuno si è mai posto il problema di recuperare il consenso perduto proponendo soluzioni per i problemi della città e/o progetti seri per il suo futuro. A gennaio, con anticipo esagerato, Mariastella Gelmini, prodotto locale di Forza Italia assurta alla gloria politica nazionale, ha pensato bene di precedere gli alleati ed occupare per tempo la casellina del candidato di coalizione con Paola Vilardi, militante forzista della prima ora, impegnata da anni nella politica cittadina, persona seria ma di caratura politica chiaramente insufficiente.
Una scelta (ed una fretta) abbastanza incomprensibile, avallata con poco entusiasmo solo a fine marzo con l’approvazione (a fronte di altre concessioni) della Lega, primo partito della coalizione in città.
I fatti si sono poi incaricati di dimostrare l’errore, di tempi, di metodo e di merito della Gelmini perfettamente a suo agio nella parte di megafono di Berlusconi, molto meno in quella di coordinatrice politica a casa sua.
Così è arrivata, prevedibile e praticamente annunciata, l’inevitabile sconfitta lasciando la sensazione di una partita persa senza neppure averla giocata e tale da fare apparire un gigante persino l’opaco e modesto Emilio del Bono.
Le elezioni comunali regalano a Brescia un centrodestra specchio di quello nazionale, cioè il pallido simulacro della passata alleanza che fu. Chi si ostina a restare inchiodato al vecchio schema, raccontando magari che il centrodestra unito cresce e vince, farebbe bene a riflettere sui numeri bresciani (e del resto d’Italia): la Lega balza al 24,17% (8,66% nel 2013), Forza Italia frana dal 14,40% al 7,56% e FDI galleggia alla meno peggio con uno stazionario ed irrilevante 3,29% (2.560 voti) dal 2,74% (2.132 voti) del 2013, ma perdendo per strada ben 1.791 elettori rispetto alle Regionali di marzo (4,50%).
E’ il prezzo (salato) pagato per l’uscita dal partito, inevitabile e perfettamente giustificata, di Viviana Beccalossi colpevole di lesa maestà per avere avuto il coraggio di dire pubblicamente verità sacrosante ma scomode (che molti altri sussurravano solo in privato) perchè non gradite alla Meloni, che pare non ami essere contraddetta, e alla sua piccola ma astiosa corte romana.
La Beccalossi, tra l’altro, sarebbe stata un ottimo candidato sindaco, sicuramente più competitivo e per molti versi più influente ed accreditato della Vilardi.
Qualcuno in realtà ci aveva anche pensato, ma oramai era tardi: la fretta e la maldestra conduzione della Gelmini avrebbero reso il cambio in corsa un pasticcio poco gestibile e poco credibile. Così a Brescia il centrodestra (o quello che è adesso) ha regalato al PD e ai suoi fiancheggiatori una delle pochissime soddisfazioni del 2018.