Chi ha visto le drammatiche immagini del malore occorso al campione danese Eriksen, avrà impresso anche nella mente il comportamento ammirevole del suo capitano Kajer. Egli si è subito accorto della gravità della situazione, ha messo su un fianco il suo compagno di squadra, in una posizione di sicurezza, ne ha spostato la lingua per permettere una naturale respirazione e poi, una volta arrivati in soccorso medici e rianimatori, ha fatto schierare i suoi giocatori in cerchio attorno ad Eriksen, perché facessero da scudo e garantissero rispetto al grave momento.
Una volta che il generoso cuore di Christian ha ripreso a battere, il capitano Kajer ha accompagnato fuori dal campo di gioco il compagno in barella, in testa ad un piccolo corteo composto da tutta la squadra, quasi come dei guerrieri vichinghi schierati attorno al proprio re.
In questa scena si è vista tutta l’importanza che può avere un capitano per la propria squadra ; in tempi di piattume generalizzato, di fuga di molti dalle responsabilità, di un conformismo rivolto al basso, vedere che una figura emerge sulle altre e diventa guida e punto di riferimento per tutti, è qualcosa che dà sollievo e speranza per il futuro.
D’altra parte la storia del calcio è fatta sì di grandi campioni ma anche di grandi capitani. Mentre nel basket esiste il playmaker, colui che detta il gioco, nel football la carica di capitano non nasce da un ruolo particolare ma dal carisma che un giocatore sa trasmettere alla squadra.
Ricordo quando nei primi anni sessanta in terza elementare scelsi di tifare Inter : mio padre tifava per la Fiorentina, squadra della sua città, quindi non fui influenzato da niente se non dai colori nerazzurri che ritenevo più belli degli altri: mio fratello scelse il Toro di capitan Ferrini, poi, essendo più piccolo di tre anni, optò per il Milan per spirito di contraddizione nei miei confronti.
Ricordo allora la mitica figura di capitan Picchi, uomo di grande intelligenza, vero e proprio allenatore in campo, di cui Helenio Herrera poi si rilevò geloso. Armando Picchi sapeva dettare i tempi di gioco, organizzare la difesa, importantissima ai tempi del catenaccio, tenere tutti concentrati. Dalla parte rossonera svettava capitan Cesare Maldini , uomo di grande eleganza calcistica, un triestino sobrio ma autentico, leader nell’esempio, che dette prima ai suoi compagni, poi a suo figlio Paolo a cui anni dopo toccò la stessa fascia. In quegli anni Picchi e Maldini ebbero la fortuna di sollevare la Coppa dei Campioni, ed uomini più degni non ci furono per avere questo onore.
Ma le due squadre milanesi ebbero altri grandi capitani : Giacinto Facchetti, campione indiscutibile,e capitano della Nazionale nel “partido del siglo “ Italia Germania 4-3. Poi Xavier Zanetti da una parte e Franco Baresi sulla sponda rossonera. Giocatori premiati con la fascia di capitano per l’esempio che sapevano dare in campo e nello spogliatoio, ma soprattutto uomini che vestirono una sola maglia in carriera.
Poi ricordiamo Giacomo Losi, detto “er core de Roma” per la generosità del suo impegno : anch’egli una sola vera maglia come Francesco Totti : nessun procuratore ci fu ad alzare il prezzo del loro impegno, perché la leggenda non ha prezzo.
E che dire di Pino Wilson, capitano della pazza Lazio che vinse lo scudetto del campionato1973-74 ; per metà era composta da giocatori di destra , l’altra metà stava zitta , ma poi in campo erano una cosa sola. Si diceva allora che Wilson fosse iscritto alla Giovane Italia ; non so se fosse vero, ma il fatto che la voce girasse significava che il fatto potesse essere ritenuto plausibile. D’altra parte in quei difficili anni Chinaglia ebbe il coraggio di esprimere ammirazione per Almirante e il terzino destro bianco-azzurro Martini sarebbe poi diventato deputato di Alleanza Nazionale.
Wilson , come Picchi, faceva dell’intelligenza calcistica la sua dote naturale più importante: entrambi non erano campioni ma sapevano giocare a calcio.
Quando a Berlino nel 2006 diventammo campioni del mondo, fu Fabio Cannavaro ad alzare la coppa, come fece Dino Zoff nel 1982. A dicembre di quell’anno mi trovai in Messico e a chi mi chiedeva da dove venissi, rispondevo fieramente che ero italiano. “Ah Italia, Cannavaro !” era l’inevitabile commento.
Perchè il capitano è lo spirito della squadra, è l’esempio, è il coraggio e la forza, diventerà il mito.In questo mondo di piccoli uomini, salviamo il capitano !.
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