La cultura dell’Italia novecentesca è imbarazzante, per i dogmi dell’antifascismo. Perché è stata una stagione felice, e perché vari suoi protagonisti sono stati legati al fascismo; quel che è “peggio”, tale legame spesso non è stato coatto. Anzi: entusiasta. Imbarazzo risolto con rimozioni, sostituzioni, distinguo a posteriori, riletture mendaci, mistificazioni: bugie.
L’esempio forse più eclatante è Giovanni Gentile, il cui idealismo è etichettato come “sciocchezza” da professori universitari che poi predicano le cretinate di Karl Popper: che ciò porti a un considerevole calo del livello culturale e filosofico degli studenti non importa, si badi piuttosto a insegnare cosine accomodanti, giochetti logici e liberalismo. Nonostante spadroneggi la toponomastica di grandi città e piccoli paesi con la stessa invadenza di Garibaldi, Verdi e Vittorio Emanuele II, e per anni sia comparso sulla banconota da ventimila lire, di Guglielmo Marconi si parla poco: eppure il suo genio era immenso, e tuttora delle sue creazioni beneficiamo tutti. Non beneficio, bensì distruzione ha portato al mondo Enrico Fermi: ma, dopo una prima adesione per opportunità, rinnegò il regime, perciò si ricordano con ammirazione lui e “i ragazzi di via Panisperna”, bellissima stradina romana che andrebbe comunque esorcizzata.
Il rimedio più frequente, qualvolta si noti che un grande protagonista della cultura italiana del passato prossimo ha aderito al fascismo, è il ricorso alla formula andreottiana “la situazione era un po’ più complessa”: non diceva sul serio, non intendeva per davvero, ne aveva bisogno, era in una posizione delicata, teneva famiglia, altrimenti non gli avrebbero lasciato la cattedra, l’assegno di ricerca, la tessera annonaria.
La cultura ufficiale deve negare, a qualsiasi costo, che i suoi rappresentati migliori fossero fascisti. Eppure non c’è scampo: i due grandi esponenti della filosofia e della scienza citati, Gentile e Marconi erano fascisti convinti. Oppure, riguardo la musica: Giacomo Puccini (che del regime vide solo i primi due anni) aderì al PNF con entusiasmo, e Pietro Mascagni fu fascista sino ai bombardamenti alleati su Roma. Se poi si parla di letteratura, ebbene sì: Luigi Pirandello era fascistissimo.
No, la sua non fu un’adesione dovuta a contingenze, obblighi, e non fu viziata da esitazioni, ripensamenti. Pirandello, ammiratore convinto e fervido di Mussolini (“un mito”) cercò il fascismo, prima che il regime lo cercasse: e non smentì il suo essere convintamente fascista sino alla morte, sopraggiunta nel 1936; dopo di ciò saranno altri, a smentirla al posto suo. Con la solita prassi dei processi alle intenzioni. Le alternative, per la cultura ufficiale italiana, erano: rinnegare Pirandello, o rinnegarne le convinzioni; la prima ormai era impraticabile, essendo già in vita Pirandello (nonostante gli smacchi e le ostilità – ovviamente tutte in patria) autore affermatissimo e celebratissimo (sino al Nobel nel 1934).
Si è così scelto di censurare: fare finta che Pirandello non si fosse mai espresso, fingere che non si sia mai interessato di politica, oppure che fosse confuso, istupidito, spaventato, costretto.
Agrigentino come Pirandello, dottore in Lingua e Letteratura Italiana, il professor Piero Meli ha tratto un volumetto dalle sue ricerche: Luigi Pirandello. «Io sono fascista». Tutto comincia da un’altra querelle riguardo l’adesione fascista di Pirandello: era il settembre 1924, il deputato del PNF (già segretario dei repubblicani) Armando Casalino era stato ucciso per vendicare Giacomo Matteotti, il cui omicidio (perpetrato a giugno) ancora faceva scontare al regime un calo di popolarità. Il giorno 18, il quotidiano “Il Nuovo Paese” pubblicò una lettera del giorno precedente, con la quale il commediografo siciliano domandava a Sua Eccellenza il Duce la tessera del suo partito: era, scriveva il mittente, “il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio”; con tale missiva lo scrittore si offriva quale “più umile e obbediente gregario”. Ne seguiva però una lite, tramite lettere sui giornali, tra lo stesso Pirandello e Giorgio Amendola; scontro che degenererà in una campagna diffamatoria, svolta sulle pagine di “Il Mondo”, da parte di Amendola, Corrado Alvaro e altri antifascisti, stando ai quali Pirandello doveva la sua fortuna letteraria alla sponsorizzazione del filosofo Adriano Tilgher, e soprattutto avrebbe aderito al partito di governo soltanto per ottenere un seggio al Senato. Accusa, come dimostra Meli, mendace: all’atto di chiedere la tessera, Pirandello già sapeva di non essere incluso nella prossima “infornata” senatoriale, dalla quale aveva già chiesto e chiederà ancora di essere escluso.

Frainteso a bella posta in vita, il Pirandello politico lo sarà anche da morto: se hanno una serietà le distinzioni tra lo scrittore e le sue opere (aliene da qualsiasi precetto fascista, rifiutando Pirandello di scrivere sotto qualsivoglia condizionamento a priori), non ne ha il tentativo di Elio Providenti di parlare di “Pirandello impolitico”, o quelli di Leonardo Sciascia di far passare il suo conterraneo per un babbeo resosi utile alla propaganda fascista.
Il prof. Piero Meli ha, con il suo studio dettagliato e approfondito, fatto chiarezza (con un rigore che è stato riconosciuto anche da telegiornali e quotidiani di sinistra – in primis, “La Repubblica”) sulla sincerità e sulla nitidezza dell’inequivocabile fascismo di Pirandello: perché se l’arte pirandelliana non è fascista, con giubilo della cultura ufficiale, Luigi Pirandello lo era; e ammettendone l’opera nella storia della grande letteratura, ciò va riconosciuto. Un passo importante, una risposta doverosa e necessaria a un culturame stupidamente dogmatico, che si arrocca su stupidaggini come “la cultura di destra è tutta nazista” (l’ultra-accademico, pubblicatissimo Paolo Flores d’Arcais, in un’intervista d’un paio di giorni fa). Ai dogmi, agli arroccamenti in nome dei preconcetti, ai rifiuti delle evidenze, alle mistificazioni si risponde anche come ha fatto Meli: con la letteratura, con i documenti, con le argomentazioni.
Piero Meli, Luigi Pirandello. «Io sono fascista»
Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta 2021
Pagg. 150, euro 16